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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza – Italia / Gare pubbliche e cartelli - Avvio di istruttoria dell’AGCM per una potenziale manipolazione delle gare nell’ambito di istituti penitenziari per servizi di vitto e sopravvitto

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha avviato un’istruttoria per accertare la potenziale manipolazione di alcune gare pubbliche indette, dal 2020 fino al settembre 2022, dai Provveditorati regionali dell’Amministrazione Penitenziaria (PRAP) per l’affidamento della fornitura di servizi di vitto e sopravvitto (ossia, il servizio reso direttamente a pagamento delle persone recluse) a favore degli istituti penitenziari nel Centro-Sud Italia e nelle Isole maggiori.

Dopo una prima segnalazione pervenuta nel febbraio 2022, l’AGCM trasmetteva una richiesta di informazioni al Ministero della Giustizia con cui venivano richiesti i dettagli di tutte le procedure comparative relative ai servizi in questione e indette da undici PRAP, integrando la documentazione con gli atti reperibili sul sito web del medesimo Ministero.

Le imprese interessate dal procedimento (le Società), ossia la Ditta Domenico Ventura S.r.l., SAEP S.p.A., Rag. Pietro Guarnieri - Figli - S.r.l., Pastore S.r.l., Impresa D’agostino S.r.l., avrebbero, secondo prime ricostruzioni, coordinato i propri comportamenti attraverso: i) la presentazione di offerte estremamente eterogenee tra i vari lotti della medesima procedura tali da favorire di volta in volta una delle sodali nell’aggiudicazione (con un meccanismo c.d. “scacchiera”); ii) la formulazione di offerte “di appoggio” o l’astensione dalla procedura allo scopo di avvantaggiare altri concorrenti da interpretare come compensazioni rispetto ad altre contestuali procedure; iii) l’astensione dalle procedure di sopravvitto al fine di favorire l’affidamento della concessione all’operatore favorito per l’aggiudicazione del corrispondente servizio di vitto o l’operatore già aggiudicatario dello stesso. Rispetto a tale ultimo profilo, emergerebbe che tale comportamento sarebbe idoneo a consentire agli aggiudicatari del servizio di vitto di compensare il notevole sconto praticato in alcuni casi, in quanto dal sopravvitto è possibile ricavare maggiore utili anche nella misura in cui le persone recluse, innanzi ad un peggioramento del primo servizio, avrebbero dovuto acquistare con proprie risorse gli alimenti necessari per compensare la scarsità dei pasti offerti.

Tale intesa, in asserita potenziale violazione dell’art. 101 TFUE, avrebbe avuto ad oggetto la ripartizione del mercato finalizzata all’aggiudicazione degli appalti e delle concessioni oggetto di concentrazione, risultando, nell’area geografica interessata, nell’aggiudicazione da parte delle cinque società interessate dell’86% (in valore) del totale delle procedure aggiudicate ad oggi. L’esistenza della condotta collusiva sarebbe avvalorata, oltre che dalla reiterazione degli stessi comportamenti di cui sopra nell’ambito di gare diverse, anche dalla scarsa valenza discriminante del punteggio tecnico ottenuto dalle società e dalla contestualità delle procedure di gara, che potrebbe aver consentito un’immediata compensazione tra i lotti aggiudicati nelle distinte gare.

Nell’attesa degli sviluppi del procedimento, vale evidenziare che l’AGCM non esclude una più ampia latitudine temporale e geografica delle possibili condotte collusive, tale da eventualmente ricomprendere tutte le gare bandite dalle stazioni appaltanti nei settori del vitto e sopravvitto, anche più risalienti nel tempo.

Francesca Incaprera Huerta

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Tutela del consumatore / Pratiche commerciali scorrette e settore dell’elettronica di consumo – Il Consiglio di Stato ha accolto l’appello presentato da Apple nel caso relativa alla resistenza all’acqua di alcuni modelli di iPhone

Con la sentenza pubblicata lo scorso 21 novembre (Sentenza), il Consiglio di Stato (CdS) ha accolto l’appello proposto da Apple Italia S.r.l. (Apple Italia) e Apple Distribution International Limited (ADI) (congiuntamente, Apple) avverso la sentenza del 24 febbraio 2022 con cui il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (TAR Lazio) aveva confermato la decisione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (l’AGCM) del 27 ottobre 2020 (il Provvedimento). Tale Provvedimento, ora annullato in toto dal CdS, era stato adottato al termine del procedimento PS11578 – iPhone resistente all’acqua (il Procedimento), sanzionando Apple per aver posto in essere asserite due pratiche commerciali scorrette ai danni dei consumatori.

Più specificamente, l’AGCM aveva sanzionato Apple per un ammontare complessivo di 10 milioni di euro per aver asseritamente posto in essere due pratiche commerciali scorrette concernenti diversi modelli di iPhone (iPhone 8, 8 Plus, XR, XS, XS Max, 11, 11 Pro, 11 Pro Max) e consistenti: a) nella asserita diffusione di messaggi promozionali atti – secondo la ricostruzione effettuata dall’AGCM – ad esaltare la caratteristica di resistenza all’acqua di detti dispositivi in maniera non veritiera e comunque ingannevole (Pratica A); e b) nell’asserito rifiuto tout court di prestare i servizi di assistenza ai sensi della garanzia legale di conformità a quei consumatori che lamentavano la sussistenza di danni ai loro dispositivi causati dal contatto con liquidi (Pratica B).

Il CdS – dopo aver sottolineato come il Provvedimento risulti caratterizzato da un “difetto di istruttoria, idoneo ad inficiar[n]e irrimediabilmente l’intero impianto” –– ha accolto i motivi di impugnazioni proposti da Apple. In particolare:

i) in primo luogo, il CdS ha stabilito che l’AGCM non ha fornito alcuna prova atta a supportare le proprie conclusioni circa il fatto che Apple avrebbe rifiutato in toto di applicare la garanzia legale in caso di danni da liquidi ai dispositivi. Sul punto, il CdS ha sostenuto che l’AGCM non solo avrebbe preteso fondare le proprie accuse su “un numero estremamente limitato di segnalazioni” (solo 5) – specialmente se paragonato ai milioni di dispositivi venduti in Italia nel periodo rilevante – ma anche intrinsecamente contraddittorie e lacunose, alcune riportanti la testimonianza di consumatori che hanno utilizzato il proprio dispositivo in maniera palesemente contraria a quanto indicato da Apple nelle sue linee guide pubbliche. Sul punto, il CdS ha altresì sottolineato come le segnalazioni in questione provenissero da soggetti che non hanno acquistato i propri dispositivi direttamente da Apple, ma da un rivenditore terzo. Pertanto, il CdS ha ricordato che – come indicato dal Codice del Consumo – solo il venditore è tenuto ex lege a garantire l’applicabilità della garanzia legale, e non il produttore;

ii) in secondo luogo, il CdS – dopo aver stabilito che “non è in discussione che i modelli in questione posseggano le caratteristiche certificate dal rating IP67 e/o IP68” – ha riconosciuto che nel Provvedimento non sussistono adeguati riscontri probatori circa il fatto che le pubblicità trasmesse da Apple, enfatizzanti la particolare caratteristica di resistenza all’acqua degli iPhone, avrebbero ingannato il consumatore, inducendolo a considerare il dispositivo come impermeabile. Con particolare riguardo al disclaimer relativo alla mancata applicazione della garanzia in caso di danni da liquidi – indicato dall’AGCM come elemento atto ad ingenerare confusione nel consumatore – il CdS ha sottolineato come Apple abbia specificato che tale esclusione si applichi solo nel caso in cui il danno sia derivato da un uso improprio del dispositivo. A tal riguardo, il CdS ha altresì affermato come Apple – nell’adottare tali pubblicità – “si è uniformata […] alle medesime linee guida imposte dall’AGCM” al termine del summenzionato procedimento di moral suasion, rigettando così la tesi del TAR Lazio, secondo cui questo aveva effetto solo ed esclusivamente con riferimento al modello di iPhone ivi indicato (ossia, l’iPhone 7);

iii) in ultimo il CdS, nonostante il motivo in questione fosse assorbito nei precedenti, ha voluto esprimersi comunque anche sull’erroneo coinvolgimento di Apple Italia nel Provvedimento, sottolineando come – anche in questo caso – l’AGCM non sia stata in grado di fornirne prova adeguata. In particolare, il CdS ha ritenuto che l’AGCM non potesse provare la responsabilità di Apple Italia per le pratiche in esame basandosi semplicemente sulla descrizione dell’oggetto sociale di cui alla visura camerale e che, pertanto, non abbia fornito alcun chiarimento sul contributo effettivamente svolto da Apple Italia; né abbia fornito alcuna informazione sul rapporto societario tra Apple Italia e ADI.

Con la Sentenza in esame, il CdS ha inteso ribadire la fondamentale rilevanza di un solido impianto probatorio anche per quanto concerne i procedimenti relativi a pratiche commerciali scorrette, anche con riguardo in particolare alla necessità di un certo numero di segnalazioni al fine di accertare una pratica commerciale scorretta.

Alessandro Canosa

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Pratiche commerciali scorrette e dati personali – Il TAR Lazio accoglie il ricorso di Apple e rigetta il ricorso di Google contro due provvedimenti sanzionatori per pratiche commerciali scorrette inerenti alla profilazione degli utenti

Con le sentenze 15137/2022 e 15326/2022, il TAR Lazio ha rispettivamente accolto il ricorso proposto da Apple Distribution International Limited (Apple) e rigettato il ricorso proposto da Google Ireland Limited (Google) contro i provvedimenti sanzionatori adottati dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) per due pratiche commerciali scorrette inerenti alla commercializzazione dei dati degli utenti da parte delle società sanzionate.

Con i provvedimenti impugnati, l’AGCM aveva contestato ad Apple e Google due condotte largamente coincidenti, poste in essere dalle ricorrenti con riferimento alla raccolta e all’utilizzo, a fini commerciali, dei dati dei propri utenti. Nello specifico, oggetto di censura era in primo luogo l’adozione di un’informativa priva di immediatezza, chiarezza e completezza in ordine all’acquisizione dei dati personali e di ricerca dell’utente per un loro utilizzo a fini commerciali, nella fase di creazione degli account Google ed Apple ID nonché al momento dell’utilizzo di vari servizi offerti dalle due società. Un ulteriore capo di contestazione concerneva inoltre l’applicazione, al momento della creazione degli account in esame, di una procedura basata su una modalità di acquisizione del consenso all’uso dei dati degli utenti a fini commerciali in opt-out, ossia senza prevedere per il consumatore la facoltà di scelta preventiva ed espressa in merito alla cessione dei propri dati e preimpostando la possibilità di acquisizione dei dati per la società.

Pronunciandosi sul ricorso proposto da Google, il TAR ha confermato la tesi accusatoria dell’AGCM, ritenendo prive di pregio le censure mosse dalla ricorrente. Specificamente, il TAR ha constatato come le informazioni rese all’utente in sede di creazione dell’account non fossero di immediata evidenza, “in quanto posizionate in pagine raggiungibili attraverso link di consultazione meramente eventuali, come tali non idonei ad informare adeguatamente il consumatore sulla raccolta e utilizzo a fini commerciali dei suoi dati”. Né poteva ritenersi idoneo a supplire a tale lacuna il pop-up informativo che veniva mostrato nell’immediatezza dell’accettazione che concludeva il processo di registrazione dell’account Google, stante la tardività della comunicazione all’utente (a processo decisionale ormai concluso).

In merito al meccanismo di preselezione del consenso alla profilazione, il giudice di merito rileva invece la scarsa agevolezza del procedimento di opt-out, il quale rendeva necessario un comportamento attivo da parte dell’utente, dipendente dalle informazioni fornite dalla ricorrente, non di immediata percepibilità. A ciò deve inoltre aggiungersi che nei messaggi disponibili sul sito Google non si evidenziava in alcun modo – secondo quanto ricostruito nella sentenza – che la preimpostazione del consenso comportasse la possibilità di utilizzo dei dati a fini commerciali.

A diverse conclusioni è invece giunto il TAR rispetto alle censure sollevate da Apple. È risultata dirimente la circostanza che i dati raccolti siano impiegati per personalizzare annunci e risultati presenti sull’App Store e sugli altri stores Apple, vale a dire negozi virtuali “il cui accesso intrinsecamente presuppone la consapevolezza da parte dell’utente della natura commerciale delle transazioni che al suo interno possono essere eseguite”. Deve inoltre considerarsi che il processo di “personalizzazione” degli store da parte di Apple non può essere equiparato a uno sfruttamento immediato e diretto delle informazioni raccolte. Infatti, stando a quanto ricostruito dal TAR, Apple genera un profitto solo nel caso in cui gli utenti effettuino un successivo acquisto ovvero attraverso la vendita di pubblicità tramite la funzione “Search ads”, che riguarda le app presenti nello store. Sulla base di tale rilievo, il TAR rileva che la condotta contestata non può ritenersi ingannevole, essendo comunque necessaria una successiva scelta consapevole del consumatore che realizza una operazione di acquisto all’interno degli stores di Apple.

Con le sentenze in commento, il TAR è così intervenuto su una fattispecie al confine tra normativa sulla privacy e disciplina consumeristica, seguendo il solco già tracciato dalla giurisprudenza comunitaria. Resta da vedere che posizione assumerà al riguardo il Consiglio di Stato.

Luca Feltrin

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Pratiche commerciali scorrette e settore delle telecomunicazioni – L’AGCM ha irrogato una sanzione di 5 milioni di euro a Wind Tre per aver addebitato automaticamente un servizio aggiuntivo a pagamento ai propri clienti

Con il provvedimento pubblicato nel recente bollettino settimanale, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha irrogato una sanzione pari a 5 milioni di euro a Wind Tre S.p.A. (Wind Tre) per aver addebitato automaticamente l’offerta di giga aggiuntivi agli utenti titolari di scheda SIM prepagata “voce e internet” senza aver ottenuto da loro un previo consenso.

Più nello specifico, la pratica contestata, che si è sviluppata attraverso due condotte che hanno avuto luogo rispettivamente a partire dal 6 dicembre 2021 fino al 25 gennaio 2022 e a partire dal 30 maggio fino al 6 luglio 2022, consiste nell’aver inviato ai propri clienti un messaggio intitolato “modifiche contratto” nel quale si comunicava che “per esigenze di mercato legate al crescente bisogno di traffico dati” vi sarebbe stato il predetto aumento a decorrere da una specifica data, corredato non solo dalla possibilità di recedere o cambiare operatore senza penali e costi ma anche dall’inusuale terza possibilità di mantenere invariata l’offerta originaria tramite l’invio di un SMS dal testo “NVAR” ad un numero dedicato.

A fronte della segnalazione dell’associazione Utenti e Consumatori APS-ADUC e delle contestazioni mosse dall’AGCM, Wind Tre ha sostenuto che la condotta in esame configurava una corretta applicazione delle norme in tema di variazione contrattuale come regolata dal Codice europeo delle Comunicazioni Elettroniche, nonché di aver aggiunto una terza possibilità rispetto al recesso totalmente a favore del cliente. In particolare, a detta della società, la corretta applicazione dello ius variandi risulterebbe anche alla luce delle limitazioni introdotte dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 8024/2019, secondo cui le modifiche unilaterali (i) possono riguardare solo condizioni già contemplate nel contratto e (ii) non possono comportare la novazione del preesistente rapporto contrattuale.

Tuttavia, l’AGCM ha qualificato la fattispecie diversamente ritenendo sussistente una violazione dell’articolo 65 del Codice del Consumo, il quale vieta di dedurre il consenso del consumatore per qualsiasi pagamento supplementare rispetto alle preesistenti condizioni contrattuali attraverso opzioni prestabilite. In particolare, l’AGCM ha osservato che, a seguito del meccanismo di opt-out offerto ai clienti, Wind Tre si trova di fatto a gestire separatamente l’offerta originaria e i giga aggiuntivi a seconda della scelta del cliente. Pertanto, tali giga aggiuntivi costituiscono una componente tecnicamente scindibile e indipendente dall’offerta originaria e la possibilità di richiedere attivamente il mantenimento dell’offerta precedente costituirebbe una condotta finalizzata a veicolare un servizio aggiuntivo acquisendo il consenso richiesto dalla normativa in un meccanismo di “silenzio assenso” poco trasparente con cui il professionista trarrebbe vantaggio dalla mera distrazione degli utenti.

In ogni caso, l’AGCM ha ritenuto di non dover accogliere le argomentazioni di Wind Tre sopra esposte in quanto una terza possibilità, così come configurata nel caso di specie, oltre a non essere espressamente contemplata nel quadro normativo e regolamentare sulle le modifiche contrattuali unilaterali, non soddisferebbe neanche le limitazioni previste dal legislatore europeo e nazionale. Infatti, l’AGCM ritiene che tale variazione non si sia resa necessaria per “determinate contingenti e cogenti condizioni di esercizio dell’attività d’impresa” tali da configurare un giustificato motivo; non solo infatti la modifica viene asservita alla volontà del cliente, ma le ragioni economiche alla base della variazione risulterebbero insussistenti poiché, al contrario di quanto affermato da Wind Tre, le rilevazioni dimostrano come la domanda di giga nei periodi precedenti alle manovre fosse del tutto stazionaria.

Pertanto, alla luce di quanto sopra, l’AGCM ha proceduto ad irrogare a Wind Tre una sanzione pari a 5 milioni di euro, giustificata in considerazione (i) dell’impatto economico immediato determinato dalla condotta a danno del consumatore, (ii) della posizione di particolare vulnerabilità di quest’ultimo stante la situazione di asimmetria informativa, (iii) della notorietà del professionista, (iv) dell’ampia diffusione della condotta, la quale ha interessato circa 11 milioni di utenti, (v) della circostanza per cui la violazione risulta ancora in corso e (vi) dell’aggravante della recidiva, in quanto Wind Tre risulta essere già stata destinataria di provvedimenti sanzionatori per violazioni del Codice del Consumo.

La decisione oggetto di commento permette dunque di meglio delineare i limiti dettati dalla disciplina consumeristica (a) all’esercizio della facoltà del professionista di attuare modifiche contrattuali unilaterali nonché (b) alla facoltà di introdurre possibilità ulteriori a favore del consumatore rispetto al mero recesso. Essendo quest’ultima, in particolare, una fattispecie poco usuale e non espressamente regolamentata, non resta che vedere quale sarà la posizione dei giudici amministrativi al riguardo qualora Wind Tre presenti ricorso avverso il provvedimento in parola.

Niccolò Antoniazzi

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Appalti, concessione, regolazione / Diritto all’accesso agli atti e gare pubbliche - La CGUE ha stabilito che non è conforme al diritto UE una legislazione nazionale che imponga la pubblicità di ogni informazione comunicata dai partecipanti ad una gara pubblica con la sola eccezione dei segreti commerciali

Con la sentenza del 17 novembre 2022 (causa C-54/21), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha ritenuto che una normativa nazionale su contratti pubblici contrasti con la direttiva 2014/24/UE (Direttiva Appalti) ove imponga che, con la sola eccezione dei segreti commerciali, le informazioni trasmesse dagli offerenti alle amministrazioni aggiudicatrici siano integralmente pubblicate o comunicate agli altri offerenti. Analogamente, la CGUE ha ritenuto illegittima una prassi delle amministrazioni aggiudicatrici consistente nell’accogliere sistematicamente le richieste di trattamento riservato motivate da segreti commerciali.

La sentenza della CGUE è stata emessa a valle di un rinvio pregiudiziale da parte del giudice amministrativo polacco, in merito a vicenda che originava dalla gara bandita dall’Agenzia Polacca delle acque per l’aggiudicazione di un appalto relativo allo sviluppo di progetti di gestione ambientale. Uno dei partecipanti alla gara contestava l’aggiudicazione operata in favore di un concorrente davanti al giudice amministrativo e, in tale sede, chiedeva l’accesso all’offerta presentata dall’aggiudicatario. Il rinvio pregiudiziale aveva ad oggetto i limiti che il diritto UE consente di prevedere al fine di escludere l’accesso alle informazioni di gara.

In primo luogo, la CGUE ha precisato che la tutela della riservatezza prevista dalla Direttiva Appalti ha una portata più ampia di quella limitata ai soli segreti commerciali; infatti, si è ribadito che le norme europee in materia di appalti pubblici sono funzionali a garantire l’esistenza di una concorrenza leale e che, per conseguire tale obiettivo, è necessario che le amministrazioni non divulghino informazioni relative a procedure di aggiudicazione il cui contenuto potrebbe essere utilizzato per falsare la concorrenza sia in una procedura di aggiudicazione in corso, sia in procedure di aggiudicazione successive. Pertanto, non è ammissibile che la normativa nazionale impedisca alle stazioni appaltanti di rifiutare la divulgazione di informazioni che, pur non rientrando nella nozione di segreti commerciali, devono rimanere non accessibili in virtù di un interesse particolare di riservatezza degli operatori (e del loro interesse ad una concorrenza leale) o di interessi pubblici prevalenti.

In secondo luogo, si è precisato che il principio della riservatezza delle informazioni deve esse conciliato con il diritto di accesso ad una tutela giudiziaria effettiva, con la conseguenza che non è ammissibile una prassi per cui, alla richiesta di confidenzialità da parte di un concorrente per presunta sussistenza di segreti commerciali, consegua per automatismo il rifiuto di ostensione della documentazione di gara, senza che l’amministrazione accerti l’effettiva sussistenza di un interesse di riservatezza. In aggiunta, la stazione appaltante è tenuta a comunicare il contenuto essenziale dei documenti necessari per l’esercizio del diritto di difesa, salvaguardando però gli specifici profili di riservatezza che l’ordinamento tutela (ad esempio mediante l’ostensione di documenti in parte omissati), in particolare nel caso in cui la richiesta di accesso provenga da un offerente escluso, e tali informazioni riguardino gli aspetti determinanti della decisione assunta e dell’offerta selezionata.

Più analiticamente, e per quanto qui interessa, con riferimento ai dati concernenti i subappaltatori, la CGUE ha tracciato una distinzione tra, da una parte, dati idonei a identificare i soggetti coinvolti e, dall’altra, quelli riguardanti esclusivamente le qualifiche o capacità professionali. Con riferimento al primo caso, si è ritenuto che – sempre nell’ottica di una concorrenza leale – è ammissibile un rifiuto di divulgare tali informazioni qualora l’operatore abbia creato una sinergia particolare con i propri subappaltatori e che, pertanto, tali informazioni appaiano come commercialmente sensibili. Al contrario, nel secondo caso, viene in principio esclusa (salva la possibilità di ricorrere eventualmente ad una divulgazione dei soli dati essenziali) la facoltà di rifiutare l’accesso a dati non inidonei all’identificazione personale dei soggetti coinvolti, come, ad esempio, le qualifiche o le capacità professionali delle persone fisiche o giuridiche incaricate di eseguire l’appalto, la consistenza e la struttura dell’organico, oppure la quota dell’esecuzione dell’appalto che l’offerente prevede di affidare a subappaltatori.

In conclusione, la pronuncia in commento ha stabilito importanti principi circa il diritto di accesso alle informazioni di gara dei concorrenti esclusi (volevoli, a maggior ragione per l’istituto dell’accesso civico) ribadendo l’importanza di una più attenta e puntuale analisi circa il tipo di informazioni divulgabili da parte delle stazioni appaltanti e la necessità di tutelare la riservatezza di informazioni, pur non costituenti segreti commerciali, ma nondimeno meritevoli di tutela.

Enrico Mantovani

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