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Newsletter

Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Abuso di posizione dominante e prezzi discriminatori – La Corte di Giustizia esclude la presunzione di un abuso nel caso di prezzi discriminatori in assenza di un’analisi completa sulle circostanze del caso

Con sentenza nella causa C-525/16, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CdG) si è pronunciata, su rinvio pregiudiziale, in merito all’interpretazione dell’art. 102, secondo comma, lettera c) TFUE che disciplina la fattispecie di abuso di posizione dominante relativa all’applicazione “…nei rapporti commerciali con gli altri contraenti [di] condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza…”.

La domanda pregiudiziale si inserisce nell’ambito di una controversia tra MEO Serviços de Comunicações e Multimédia SA (MEO), operatore di pay-tv in Portogallo e l’Autorità garante della concorrenza portoghese (l’Autorità). Quest’ultima aveva archiviato una denuncia di MEO che sosteneva che GDA – Cooperativa de Gestão dos Direitos dos Artistas Intérpretes ou Executantes (GDA), la società cooperativa –senza scopo di lucro - di gestione collettiva di diritti degli artisti e interpreti (e che opera in regime di monopolio legale in Portogallo), applicasse (i) prezzi eccessivi riguardo all’applicazione dei diritti connessi ai diritti d’autore e (ii) condizioni diseguali tra la MEO e NOS (un’altra società attiva nel medesimo settore). L’Autorità aveva sì riconosciuto che GDA applicava tariffe differenti a determinati clienti, ma aveva ritenuto che “…basandosi […] sulla struttura dei costi, dei profitti e della redditività dell’offerta al dettaglio del servizio di trasmissione del segnale televisivo e del suo contenuto, che questa diversificazione delle tariffe fosse priva di effetti restrittivi sulla posizione concorrenziale della MEO…”. Secondo l’Autorità, al fine di stabilire un abuso per prezzi discriminatori, tale discriminazione deve essere effettivamente in grado di falsare la concorrenza sul mercato, “…infliggendo a una o più imprese concorrenti uno svantaggio concorrenziale rispetto alle altre…”.

Secondo MEO, l’Autorità aveva commesso un errore di diritto nella misura in cui non aveva applicato il criterio dello svantaggio per la concorrenza ma, al contrario, aveva valutato (escludendola) se sussistesse una distorsione significativa e valutabile della concorrenza.

Investito della causa, il giudice del rinvio ha deciso di sospendere il procedimento, chiedendo alla CdG di esprimersi proprio sulla nozione di svantaggio per la concorrenza ai sensi dell’art. 102, secondo comma, lett. c), TFUE, e, in particolare, se questa richiedesse un’analisi degli effetti concreti dell’applicazione di prezzi diversificati da parte di un’impresa in posizione dominante sulla posizione concorrenziale dell’impresa colpita e se, eventualmente, occorresse prendere in considerazione la gravità di tali effetti.

In primo luogo, la CdG ricorda che non è necessario che un comportamento abusivo produca effetti sulla posizione concorrenziale dell’impresa dominante e rispetto ai suoi eventuali concorrenti. Tuttavia, non è sufficiente che il comportamento sia discriminatorio, ma esso deve “…tend[ere] a […] ostacolare la posizione concorrenziale di alcune delle controparti commerciali di tale impresa rispetto alle altre…”. Inoltre, la CdG precisa che non è sufficiente la mera presenza di uno svantaggio immediato per ritenere che l’imposizione di prezzi superiori rispetto a tariffe applicabili ai concorrenti per una prestazione equivalente abbia falsato la concorrenza.

Nonostante non sia necessaria la prova di un deterioramento effettivo e valutabile della posizione concorrenziale delle parti, è “…importante effettuare un esame del complesso delle circostanze rilevanti, al fine di determinare se una discriminazione relativa ai prezzi produca o possa produrre uno svantaggio concorrenziale…”. Nel condurre tale esame, la CdG individua alcuni elementi che devono essere valutati dalle autorità garanti della concorrenza (o dal giudice), quali: la posizione dominante, il potere negoziale per quanto concerne le tariffe, le condizioni e le modalità d’imposizione di queste ultime, la loro durata e il loro importo, nonché l’eventuale esistenza di una strategia diretta a eliminare dal mercato a valle una delle sue controparti commerciali efficace almeno tanto quanto i suoi concorrenti.

Seppur lasciando al giudice del rinvio il giudizio sul merito, nel caso in commento la CdG rileva come la MEO e la NOS fossero i principali clienti della GDA e che pertanto disponevano di un certo potere negoziale nei confronti di quest’ultima. Inoltre, la CdG evidenzia come la formazione dei prezzi da parte della GDA fosse condizionata dalla legge (che prevedeva che, in assenza di accordo, il prezzo fosse determinato al termine di un arbitrato). Infine, nel periodo in cui sono stati applicati prezzi differenziati, tali importi “…hanno rappresentato una percentuale relativamente bassa dei costi totali sostenuti dalla MEO […] e che la diversificazione delle tariffe ha avuto un’influenza limitata sui profitti della MEO…”.

Alla luce di ciò, la CdG afferma che “…quando l’incidenza di una diversificazione tariffaria sui costi sostenuti dall’operatore che si reputa danneggiato, oltre che sulla redditività e sugli utili di tale operatore, non è significativa, da ciò può eventualmente dedursi che tale diversificazione tariffaria non è in grado di produrre un qualsivoglia effetto sulla posizione concorrenziale di detto operatore…”. Infine, la CdG rileva come, nel caso di specie (in cui l’applicazione delle tariffe diversificate riguardava esclusivamente il mercato a valle), l’impresa dominante non aveva, in linea di principio, nessun interesse a escludere dal mercato una delle sue controparti commerciali.

Con la sentenza in commento, la CdG, affermando che l’accertamento dello svantaggio per la concorrenza “…deve basarsi su un’analisi del complesso delle circostanze rilevanti del caso di specie, la quale consenta di concludere che detto comportamento ha un’influenza sui costi, sugli utili o su un altro interesse rilevante di una o più di dette controparti, di modo che tale comportamento è in grado di incidere su detta posizione…”, esclude quindi che i prezzi discriminatori possano costituire, di per sé, un abuso di posizione dominante.

Jacopo Pelucchi
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Diritto della concorrenza Italia / L’AGCM avvia una consultazione pubblica sullo schema di linee guida in materia di compliance antitrust

Lo scorso 20 aprile, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha avviato una consultazione pubblica  (che si chiuderà decorsi trenta giorni dalla pubblicazione sul bollettino della stessa AGCM) in merito ad uno schema di linee guida sulla compliance antitrust (Schema), nell’ottica di delineare indicazioni più puntuali riguardo alla valutazione dei programmi di compliance antitrust implementati dalle aziende, in connessione alle esenzioni previste nelle “Linee Guida sulle modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità in applicazione dell’articolo 15, comma 1, della legge n. 287/90” (anch’esse sottoposte, nel periodo precedente alla loro adozione, a consultazione pubblica, nell’ambito e a seguito della quale tale aspetto era già stato oggetto di particolare interesse dei soggetti intervenuti).

La prima parte dello Schema attiene perlopiù ai criteri che devono essere tenuti in considerazione dalle imprese all’atto di predisporre i propri programmi di compliance antitrust, come, ad esempio, le caratteristiche dell’impresa (oltre all’organizzazione aziendale, si fa riferimento al ruolo sul mercato e ai maggiori rischi antitrust derivanti dalla propria posizione e dalle principali attività svolte nell’ambito dello scenario competitivo di riferimento), la valorizzazione delle politiche di compliance all’interno della cultura aziendale (e, in particolare, l’impiego di risorse a tal fine, la formazione, oltre all’articolazione di una struttura guidata da un responsabile del programma), la gestione dei possibili rischi antitrust (sistemi di reporting e/o whistle-blowing, in aggiunta a procedure interne di controllo periodico e verifiche ad hoc).

La seconda parte dello Schema è senza dubbio quella più interessante, in quanto viene operata una distinzione (in termini di valutazione da parte dell’AGCM) a seconda del momento di implementazione dei programmi di compliance (se prima o dopo l’avvio dell’istruttoria).

Con riferimento ai programmi di compliance adottati prima di un procedimento, sarà necessario dare conto delle ragioni per cui si ritiene che tali programmi siano adeguati e in che misura questi hanno impattato sulla condotta oggetto dell’istruttoria. Qualora un’impresa, già dotata di un programma di compliance, decidesse di modificarlo a seguito dell’apertura di un procedimento, sarà tenuta ad indicare le caratteristiche del programma precedente, oltre alle migliorie apportate e le modalità con cui si intende dare esecuzione a quest’ultime.

Proprio nell’ambito dei programmi di compliance adottati prima del procedimento, si distingue tra i) i programmi di compliance ritenuti adeguati, che possono determinare un’attenuazione della sanzione fino al 15% (nei casi in cui si applica il programma di clemenza, tale riduzione viene garantita laddove l’impresa abbia denunciato l’infrazione prima dello svolgimento di ispezioni ad opera dell’AGCM); ii) i programmi di compliance che, seppur non in grado di impedire la scoperta di un’infrazione prima dell’intervento dell’AGCM, sono considerabili come non manifestamente inadeguati, valevoli dell’applicazione di un’attenuante fino al 10%; iii) i programmi di compliance manifestamente inadeguati (come, ad esempio, quelli non sufficienti ad impedire la commissione di infrazioni prolungate o il coinvolgimento negli illeciti antitrust da parte dei vertici aziendali, ancorché, come sembrerebbe emergere dalla relazione illustrativa dello Schema, non risulta sempre agevole identificare chi effettivamente faccia parte del top management ed il suo eventuale coinvolgimento materiale nell’infrazione), che non comportano alcuna riduzione della sanzione (e solo ove modificati in modo idoneo posso generare un meccanismo premiale non superiore al 5%).

Per quanto concerne i programmi di compliance successivi all’avvio del procedimento (e, comunque, prima della Comunicazione delle Risultanze Istruttorie), è prevista una possibile attenuazione della sanzione comminata dall’AGCM non superiore al 5%. La summenzionata relazione illustrativa dello Schema dà conto dei differenti approcci adottati al riguardo in altri Stati, come, ad esempio, nel Regno Unito, dove in circostanze del tutto analoghe a quelle appena descritte la riduzione concessa è sino al 10%.

Nell’ultima parte dello Schema, vengono chiariti alcuni altri aspetti di pari rilievo, tra cui:

-     all’impresa recidiva potrà essere concessa (solo una volta) una riduzione del 5%, nel caso in cui decidesse di migliorare il proprio programma di compliance esistente dopo l’avvio del procedimento;

-     le imprese non potranno considerare i propri programmi di compliance come adeguatamente efficaci per il solo fatto di averli adottati come impegni ex art. 14-ter della legge n. 287/1990;

-     all’interno dei gruppi societari, il programma di compliance adottato dalla capogruppo deve prevedere degli specifici meccanismi di implementazione anche con riferimento alle società controllate (nel caso di infrazione da parte di queste ultime, la capogruppo non potrà ritenersi esente da responsabilità per il solo fatto di avere correttamente adottato un programma di compliance);

-     ipotesi eccezionali in cui l’adozione di un programma di  compliance possa in qualche modo comportare l’applicazione di una circostanza aggravante o valutazioni di carattere negativo da parte dell’AGCM in sede di quantificazione della sanzione.

Filippo Alberti
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Intese e bid-rigging – Il TAR annulla in parte il provvedimento con cui aveva sanzionato Megaldi Life per la sua partecipazione ad un’intesa nella gara per servizi di ossigenoterapia

Con sentenza pubblicata lo scorso 18 aprile, il TAR ha “bacchettato” l’AGCM dando ragione in parte alla società Megaldi Life S.r.l. (Megaldi) che aveva presentato ricorso per l’annullamento del provvedimento con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) l’aveva sanzionata per aver asseritamente partecipato ad un’intesa restrittiva della concorrenza nel contesto delle gare per l’affidamento del servizio di ossigenoterapia. Per il TAR, l’AGCM non aveva in realtà dato prova di un coordinamento collusivo per quanto riguardava due dei tre momenti in cui si sarebbe attuata la presunta infrazione.

Ripercorrendo brevemente i fatti, l’AGCM aveva accertato l’esistenza di tre presunte infrazioni, tutte ritenute molto gravi, volte a mantenere artificialmente alti i prezzi per la fornitura dei servizi in questione, nonché a “cristallizzare” il mercato garantendo agli operatori coinvolti il mantenimento della rispettiva quota di mercato ed evitando l’ingresso di nuovi operatori. In particolare l’AGCM aveva accertato che le imprese coinvolte avevano (i) adottato una strategia collusiva comune atta a spingere l’amministrazione appaltante ad innalzare i prezzi della base d’asta delle gare; (ii) coordinato la propria strategia commerciale impedendo un confronto competitivo effettivo fino al 2014, spingendo l’amministrazione appaltante a modificare le condizioni economiche della gara per poi presentare offerte in maniera concertata; (iii) adottato una strategia comune atta a mantenere prezzi artificialmente alti per la fornitura dei servizi in questione per poi ripartirsi i lotti di gara in modo da preservare la propria quota di mercato nel territorio (Newsletter del 23 gennaio 2017).

Il TAR ha prima ricordato che l’AGCM è sempre chiamata ad un’attività di valutazione del contesto economico e giuridico del mercato di riferimento e degli obiettivi fondanti la condotta sanzionata, nel senso che “un’intesa “per oggetto” può qualificarsi tale solo se vi è mercato sufficientemente definito che risulti “bloccato” dall’intesa come congegnata e se gli obiettivi riconducibili al momento della sua posizione in essere siano considerabili anticoncorrenziali”. Poi ha ritenuto che l’AGCM avesse mancato di dimostrare l’esistenza di una collusione in due dei tre momenti attuativi rilevanti nei quali le parti avrebbero concertato per convincere l’Amministrazione a non ricorrere allo strumento della gara per la fornitura del servizio di ossigenoterapia in ambito regionale, culminato poi nella spartizione dei lotti posti a gara presentando offerte di fatto non in concorrenza tra loro.

Per il TAR, l’analisi del mercato operata dall’AGCM risulta gravemente carente perché non aveva ricostruito adeguatamente il concreto atteggiarsi della diversa forza contrattuale dei players operanti nel settore: doveva ritenersi che gli operatori sanzionati non godessero di un grado di autonomia sufficiente a influenzare l’andamento dei prezzi della fornitura del servizio di ossigenoterapia, sicché in tale fase non poteva esistere un accordo anticoncorrenziale tra le parti in grado di alterare, anche solo potenzialmente, il mercato.

Quanto invece alle successive fasi - individuate nel provvedimento impugnato - in cui le parti si sarebbero accordate al fine di ostacolare la riduzione dei prezzi del servizio con (i) il “boicottaggio” della procedura di accordo-quadro del 30 gennaio 2014 e (ii) la concertazione nell’ambito della gara successivamente indetta dall’Amministrazione per l’affidamento del servizio, il TAR ha ritenuto che (a) mancasse la prova dell’effettiva convergenza di tutte le parti verso una strategia comune di prezzo, essendo in presenza solo di semplici dichiarazioni unilaterali, (b) che l’affermazione della ricorrente - secondo cui l’attività di più operatori volta a perorare presso l’Amministrazione la maggiore adeguatezza di determinati aspetti economici di una procedura - non possa avere un rilievo automaticamente anticompetitivo e (c) che il comportamento delle imprese sia stato comune ad altre 6 imprese non sanzionate, il che depone nel senso della razionalità della condotta sul principio per cui “l’assoluzione [dei concorrenti autori della stessa condotta parallela] costituisce, di per sé, la prova dell’esistenza di spiegazioni alternative alla concertazione, dimostrando che la condotta contestata, lungi dal poter essere ricondotta all’unica spiegazione possibile di un parallelismo collusivo, [è] plausibilmente riconducibil [e] ad autonome e razionali scelte indipendenti еd unilaterali dei vari operatori”. Ne derivava, per il TAR, una significativa dequotazione dell’impianto accusatorio complessivo quanto alle prime due fasi dell’asserita collusione.

Di contro, quanto alla terza fase, per il TAR l’AGCM aveva raccolto numerosi elementi di prova che dimostrano una concertazione. Pertanto, doveva ritenersi che l’accordo in questione avesse avuto inizio in prossimità dell’indizione della gara (ossia dal febbraio 2014) e che l’AGCM avesse errato nel motivare la scelta di applicare un coefficiente di gravità pari al 20% ritenendo come elemento rilevante il fatto che “i comportamenti contestati sono stati posti in essere già anteriormente all’indizione e aggiudicazione della gara”: infatti, il momento iniziale della concertazione andava postdatato al febbraio 2014 e la circostanza che i comportamenti contestati non riferibili all’indizione della gara non fossero idonei a costituire un illecito anticoncorrenziale implicava per il TAR l’applicazione di un coefficiente di gravità in percentuale ridotta. Pertanto il TAR ha ritenuto equo stabilire un coefficiente pari al 15%.

Spetterà adesso all’AGCM – cui gli atti sono stati rinviati ai sensi dell’art. 134, comma 1, lett. c), cpa, quantificare l’importo della sanzione conformandosi alle indicazioni del TAR.

Cecilia Carli
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Intese e telecomunicazioni – L’AGCM chiude il sub-procedimento cautelare nell’ambito dell’indagine volta ad accertare la sussistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza tra Assotelecomunicazioni – Asstel, Telecom Italia S.p.A., Vodafone Italia S.p.A., Fastweb S.p.A. e Wind Tre S.p.A.

Si è concluso il sub-procedimento cautelare nell’ambito dell’indagine volta ad accertare la sussistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza tra Assotelecomunicazioni – Asstel, Telecom Italia S.p.A., Vodafone Italia S.p.A., Fastweb S.p.A. e Wind Tre S.p.A, concernente la determinazione del repricing comunicato agli utenti in occasione della rimodulazione del ciclo di fatturazione da quadri-settimanale a mensile in ottemperanza alla legge n. 172/2017. L’AGCM ha confermato la misura cautelare.

A seguito dell’avvio di un procedimento istruttorio nei confronti di Telecom Italia, Vodafone, Fastweb, Wind Tre (congiuntamente, gli Operatori) e dell’associazione di categoria Assotelecomunicazioni (Asstel) (si veda la Newsletter del 19 febbraio 2018), l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha deciso, in data 21 marzo 2018, di adottare una misura cautelare (si veda la Newsletter del 9 aprile 2018) per intimare agli Operatori di sospendere, nelle more del procedimento, l’attuazione dell’intesa oggetto di indagine. L’intesa consiste, secondo l’ipotesi istruttoria, nel coordinamento, anche tramite l’associazione, della propria strategia commerciale circa la tempistica e la modalità di adempimento degli obblighi di legge relativi alla fatturazione sui mercati dei servizi al dettaglio di telecomunicazione fissa e mobile.

Dopo il provvedimento cautelare, adottato inaudita altera parte, è stato instaurato un contraddittorio successivo con gli Operatori, che hanno potuto depositare memorie difensive ed essere sentiti separatamente dal Collegio. Le parti hanno contestato il fumus boni iuris e il periculum in mora alla base della misura cautelare e ne hanno chiesto la rimozione, avanzando diversi ordini di osservazioni.

In primis, gli Operatori hanno sostenuto che gli elementi probatori su cui si fonda il provvedimento cautelare non sarebbero idonei a provare la sussistenza di un’intesa restrittiva, e che la motivazione del fumus poggerebbe su una citazione solo parziale dei documenti e delle prove raccolte dall’AGCM. Questa infatti, in particolare secondo Telecom Italia e Fastweb, avrebbe fatto un uso strumentale del materiale probatorio, omettendo numerosi documenti che dimostrerebbero invece come il processo decisionale degli Operatori sia stato autonomo.

Inoltre gli Operatori, in particolare Vodafone, hanno sottolineato come il mercato delle telecomunicazioni fisse e mobili sia caratterizzato da un forte dinamismo, da competitività e dalla presenza di molteplici operatori e di offerte composite. In tale contesto, osserva Vodafone, un’eventuale intesa di prezzo non sarebbe efficace. Fastweb, al contempo, ha sostenuto che i consumatori non sarebbero in grado di percepire la differente periodicità della fatturazione come elemento di differenziazione concorrenziale. In altre parole, gli utenti non avrebbero la capacità di discriminare tra prezzi mensili e prezzi quadri-settimanali. L’aumento dell’8,6% a seguito della nuova periodizzazione dunque, non sarebbe stato percepito dai consumatori.

Gli Operatori poi hanno posto l’accento sul fatto che l’operazione di repricing non ha condizionato l’autonomia commerciale delle imprese coinvolte, le quali avevano in precedenza già determinato in modo indipendente le proprie politiche tariffarie. La manovra di repricing non introduce alcun aumento di prezzo – Wind in particolare parla di “aumento inesistente” – ma costituisce un mero adeguamento matematico al nuovo periodo di fatturazione, da parametrare su 12 mesi invece che 13 (il numero di mensilità che risultava dalla precedente fatturazione a 28 giorni). Inoltre, le parti hanno in vario modo sostenuto che le condotte di repricing sarebbero frutto di scelte indipendenti – le modalità di applicazione degli aumenti non sarebbero infatti omogenee tra loro – e che il parametro comune della spesa annuale sarebbe in realtà una soluzione “autonoma, razionale e prudente”, dettata da necessità di equilibrio contabile e di definizione degli obiettivi di budget di ogni operatore.

Da ultimo, gli Operatori hanno lamentato come la misura cautelare si tradurrebbe, di fatto, in un ordine surrettizio di riduzione dei prezzi, che causerebbe l’imposizione di un prezzo di mercato e che violerebbe, in particolare secondo Wind, il principio fondamentale di certezza del diritto.

Nello svolgere le sue valutazioni, l’AGCM ha respinto le difese degli Operatori, con argomenti che ricalcano in buona parte quanto già osservato nella delibera cautelare, confermando dunque la misura che obbliga le imprese a sospendere l’applicazione del repricing. In particolare, l’AGCM ha sottolineato come sussistano prima facie tutti i requisiti indicativi di una pratica concordata. I contatti tra le parti sono stati innumerevoli e sotto varie forme, e avrebbero permesso agli Operatori di eliminare qualsiasi incertezza circa le modalità e i tempi di adeguamento dei concorrenti agli obblighi regolamentari e legislativi di fatturazione su base mensile. Con riferimento a ciò, le strategie commerciali sarebbero state determinate nella conoscenza delle intenzioni altrui. Inoltre, l’AGCM rileva come il riferimento alla spesa annuale sia un mero artificio avanzato dalle parti, poiché i rinnovi con i consumatori avvengono su base mensile o settimanale, e solo sulle condizioni del singolo rinnovo gli utenti scelgono quale operatore preferire. Le modalità e i tempi di adeguamento agli obblighi, lascia intendere l’AGCM, ben potrebbero, se definite in condizioni di incertezza, determinare uno spostamento di clienti da un operatore all’altro.

Leonardo Stiz