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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Abusi e settore delle telecomunicazioni – La Corte di Giustizia respinge il ricorso di Orange Polska e conferma la sanzione di 128 milioni irrogata dalla Commissione per abuso di posizione dominante

Con la sentenza nella causa C-123/16 la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CdG) ha respinto il ricorso di Orange Polska (OP o la Ricorrente), operatore incumbent nel settore delle telecomunicazioni in Polonia, avverso la sentenza del Tribunale dell’Unione europea (il Tribunale) che aveva confermato la decisione della Commissione europea con la quale OP, nel 2011, era stata sanzionata per abuso di posizione dominante (la Decisione).

Più nel dettaglio, la Commissione aveva considerato che OP avesse abusato della sua posizione dominante nel mercato all’ingrosso dell’accesso internet a banda larga e in quello dell’accesso fisico alle infrastrutture della rete in postazione fissa, al fine di avere un vantaggio nel mercato dell’accesso a internet al dettaglio, elaborando una strategia volta a limitare la concorrenza in tutte le fasi del processo di accesso alla sua rete. Secondo l’accertamento della Commissione tale strategia consisteva (i) nell’offrire agli operatori alternativi condizioni non ragionevoli per l’accesso alla banda larga e l’accesso disaggregato alla rete locale, (ii) nel ritardare il relativo processo di negoziazione, (iii) nel limitare l’accesso alla sua rete e alle linee di abbonati e, infine, (iv) nel rifiutare di fornire le informazioni necessarie agli operatori alternativi per prendere decisioni in materia di accesso.

Con la sentenza in commento, di contenuto strettamente procedurale, la CdG ha respinto ogni motivo di ricorso di OP, confermando la sentenza del Tribunale del 2015.

Nei motivi di ricorso, OP aveva sostenuto che, poiché la condotta abusiva era stata terminata più di sei mesi prima della notifica della comunicazione degli addebiti (e diciotto mesi prima dell’adozione della Decisione), si sarebbe trattato di una infrazione già cessata e quindi la Commissione sarebbe stata tenuta a dimostrare un legittimo interesse ad accertare l’infrazione (cosa che non avrebbe invece fatto nella Decisione). La CdG, così come il Tribunale prima di essa, ha invece affermato come “…il potere della Commissione di infliggere ammende in caso di infrazione e di adottare decisioni a tal fine implica necessariamente quello di accertare l’infrazione di cui si tratta…” e che il potere della Commissione di infliggere sanzioni “…non è affatto inficiato dalla circostanza secondo cui il comportamento che costituisce l’infrazione è cessato…”. Di conseguenza, il potere di infliggere un’ammenda le conferisce il potere implicito di constatare l’infrazione, senza che la Commissione sia tenuta a dimostrare un interesse legittimo ad effettuare tale accertamento quando si tratta di un’infrazione già cessata.

Il secondo motivo di ricorso riguardava l’asserito snaturamento, da parte del Tribunale, della Decisione, in quanto aveva ritenuto che, nel valutare la gravità dell’infrazione ai fini del calcolo dell’importo di base dell’ammenda, la Commissione non aveva tenuto conto né degli effetti concreti, né degli effetti probabili dell’infrazione e, di conseguenza, non aveva esaminato l’argomento di Orange secondo cui la Commissione non aveva fornito indizi concreti, credibili e sufficienti di tali effetti concreti e/o probabili.

La CdG ha respinto anche tale argomento, sostenendo che non vi era stato alcun snaturamento da parte del Tribunale. Al contrario, il Tribunale aveva correttamente considerato che la Commissione, nella Decisione, non aveva tenuto conto degli effetti concreti dell’infrazione nella valutazione della sua gravità (essendosi riferita in maniera generale ed astratta alla natura dell’infrazione stessa e al fatto che essa, nella misura in cui era deliberata e mirava ad eliminare la concorrenza sui mercati interessati, incidendo così negativamente sulla concorrenza e sui consumatori) e che pertanto non era tenuta a dimostrarli.

Infine, con l’ultimo motivo, OP contestava che non erano stati presi in considerazione, quale circostanza attenuante, gli investimenti intrapresi da OP stessa nei mercati oggetto di infrazione. Sul punto, la CdG ha affermato che gli investimenti intrapresi da OP non potevano essere considerati misure di risarcimento comparabili a quelle riconosciute dalla Commissione in alcuni casi. Infatti, tra le altre cose, gli impegni di investimento di OP erano stati motivati dall’intenzione di OP di evitare una separazione funzionale e ha ritenuto che tali investimenti fossero un elemento normale del commercio, dal momento che essi giovavano prima di tutto a Orange stessa.

Infine, la CdG ha ricordato come non sia sua competenza, quando si pronuncia su questioni di diritto nell’ambito di una impugnazione, sostituire, per motivi di equità, la sua valutazione a quella del Tribunale, a meno che non ritenga il livello della sanzione non solo inadeguato ma anche sproporzionato. Secondo la CdG, la sanzione applicata dalla Commissione nel caso in commento non presentava tale elemento.

Jacopo Pelucchi
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Antitrust e restrizioni verticali - La Commissione sanziona per 110 milioni di euro Asus, Denon & Marantz, Philips e Pioneer per aver imposto prezzi minimi ai propri rivenditori online

Lo scorso 24 luglio la Commissione europea (Commissione) ha reso noto di aver sanzionato Asus, Denon & Marantz, Philips e Pioneer, con un multa complessivamente pari a 110 milioni di euro, per aver imposto prezzi minimi di rivendita ai propri rispettivi distributori online. I quattro operatori, nella ricostruzione della Commissione, intervenivano minacciando ovvero sanzionando (anche con il blocco delle forniture) i propri rivenditori online che si discostavano dai prezzi di rivendita da loro “suggeriti” applicando prezzi più bassi.

I quattro (distinti) procedimenti a carico degli operatori si sono essenzialmente fondati sulle evidenze raccolte nel corso di ispezioni presso le loro sedi. La Commissione ha accertato che le pratiche oggetto di indagine includevano il monitoraggio e l’individuazione, da parte di ciascun operatore, di quei distributori online che offrivano prezzi per i loro prodotti più bassi di quelli indicati dai quattro produttori. Rientravano nella pratica in oggetto qualsiasi deviazione di prezzo, a partire da 1 euro. I distributori che non si adeguavano alle indicazioni fornite venivano minacciati ovvero venivano loro imposte sanzioni che includevano anche il ritiro/blocco delle forniture dei prodotti rilevanti.

Sebbene Commissione non abbia rinvenuto profili di coordinamento orizzontale tra i quattro operatori, la stessa ha accertato che ciascuno di essi individualmente aveva adottato specifici sistemi e software in grado di monitorare i prezzi di rivendita effettivamente applicati dalla propria rete di distribuzione, così da poter intervenire rapidamente allorquando veniva rilevata una deviazione dai prezzi “raccomandati”. L’effetto complessivo di tali condotte è stato amplificato dal fatto che i distributori online utilizzavano altresì specifici algoritmi in grado di adattare automaticamente i propri prezzi di rivendita a quelli applicati dai propri concorrenti.

La sanzione più pesante è stata imposta ad Asus (circa 63 milioni di euro), seguita da Philips (circa 29 milioni di euro), Pioneer (10 milioni di euro) e Denon & Marantz (circa 7 milioni di euro). In particolare, Asus per la Commissione ha monitorato il prezzo di vendita di notebook e display, chiedendo ai propri distributori di alzare i prezzi in Germania e Francia fra il 2011 ed il 2014. Philips invece è stata sanzionata per analoghe condotte poste in essere in Francia fra il 2011 ed il 2013 su prodotti di largo consumo. Denon & Marantz avrebbe vincolato i rivenditori a mantenere un determinato livello di prezzi per articoli come auricolari e speaker in Germania e nei Paesi Bassi dal 2011 al 2015. Infine, Piooner, oltre a imporre a sua volta un determinato livello di prezzi minimi, avrebbe imposto anche restrizioni alle vendite cross-border per lucrare sulla differenza di prezzi applicati in diversi Stati membri (tra cui l’Italia).

Degno di menzione appare il fatto che tutti e quattro gli operatori hanno beneficiato di sostanziose riduzioni della sanzione che sarebbe stata altrimenti loro imposta (del 40% e del 50% nel caso di Pioneer) per aver efficacemente collaborato con la Commissione nel corso delle indagini. Tutti hanno peraltro ammesso, secondo quanto indicato nel comunicato della Commissione, che non sussisteva alcuna giustificazione per la propria condotta in termini di efficienza (come ad esempio la necessità di lanciare un nuovo prodotto a beneficio ultimo dei consumatori).

Il tema dell’e-commerce resta dunque una delle priorità nell’agenda di enforcement della Commissione, sulla scia di quanto emerso dall’indagine di settore conclusasi lo scorso maggio 2017. Inoltre, i software di monitoraggio dei prezzi online hanno già da tempo attirato l’attenzione dell’occhio vigile di varie autorità antitrust – che hanno paventato diverse nuove forme di collusione “automatizzata”, sia orizzontale sia verticale. Da quanto emerge dal comunicato stampa della Commissione, non sembra che il fulcro delle indagini in commento sia stato quello degli applicativi software e degli algoritmi di monitoraggio dei prezzi individualmente utilizzati dai quattro operatori, e questo non sembra esser stato un fattore rilevante considerato ai fini del computo della sanzione. Tuttavia, le decisioni in commento sembrano essere il primo monito concreto lanciato alle imprese in merito a forme di collusione “automatizzata”, anche se l’alto livello di cooperazione fornita dalle imprese suggerisce l’assenza di un’analisi approfondita da parte della Commissione sul punto. In ogni caso, un segnale importante per le imprese circa l’attenzione e l’intenzione della Commissione di intervenire con priorità per scongiurare forme di restrizioni della concorrenza di tipo verticale.

Cecilia Carli
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Controllo delle concentrazioni e garanzie procedimentali – Secondo l’Avvocato Generale Kokott è illegittimo il divieto di una concentrazione disposto dalla Commissione sulla base di un’analisi econometrica modificata e non condivisa con le imprese interessate

Le procedure di controllo delle concentrazioni […] si distinguono per l’elevata complessità delle situazioni economiche da esaminare […] [dovendo] talvolta essere effettuate difficili previsioni sulla presumibile evoluzione del mercato…” e potendo “…la Commissione avvale[rsi], a tal fine, di modelli econometrici…” che costituiscono, di regola, oggetto di discussione con le imprese interessate nel corso del relativo procedimento. Tuttavia, “…si pone la questione se i diritti della difesa impongano di informare tali imprese in merito a modifiche sostanziali apportate [dalla Commissione] ai modelli econometrici nel corso del procedimento amministrativo e di sentirle al riguardo prima di pronunciare un divieto di concentrazione…”.

Così ha esordito l’Avvocato Generale Kokott (AG) nelle proprie conclusioni presentate lo scorso 25 luglio nella controversia pendente innanzi alla Corte di Giustizia (CdG) su ricorso della Commissione europea (Commissione) avverso la sentenza con la quale il Tribunale dell’UE (Tribunale) aveva annullato la decisione della Commissione di vietare la proposta acquisizione di TNT Express da parte di United Parcel Service. Il Tribunale aveva giudicato illegittima la decisione della Commissione in quanto assunta sulla base di un modello econometrico (nella specie, un modello di concentrazione dei prezzi), al quale la Commissione aveva apportato modifiche sostanziali rispetto a quanto discusso con le imprese parti del procedimento, senza informarle al riguardo e senza metterle in condizione di presentare osservazioni. E tale condotta, secondo il Tribunale, avrebbe costituito una illegittima violazione delle garanzie procedimentali e dei diritti di difesa riconosciuti alle imprese nel corso dei procedimenti di controllo delle operazioni di concentrazione.

L’AG Kokott nelle proprie conclusioni ha condiviso in toto il ragionamento del Tribunale, considerando il modello econometrico in esame come “elemento” determinante sul quale la Commissione aveva inteso fondare la propria decisione di vietare l’operazione di concentrazione proposta, il cui contenuto e le cui modifiche sostanziali eventualmente apportate avrebbero dovuto essere condivisi con le imprese interessate. E ciò, in ossequio alla regola prevista in materia di merger control secondo cui “…ai fini del rispetto dei diritti della difesa, è imprescindibile mettere le imprese interessate in condizioni di far conoscere utilmente il loro punto di vista su tutti gli elementi sui quali la Commissione intende fondare la propria decisione…”.

E il contenuto di tale fondamentale principio a tutela del diritto di difesa non può essere limitato nemmeno in considerazione delle esigenze di celerità che caratterizzano il procedimento di controllo delle operazioni di concentrazione. Sul punto, l’AG ha precisato che “…non si deve arrivare ad una specie di partita di ping pong, in cui le imprese sollevano via via sempre nuovi dubbi nei confronti del modello econometrico privilegiato dalla Commissione...”, occorrendo tuttavia lasciare “…sempre sufficiente spazio per la loro [delle imprese] difesa….”. Nel caso di specie, secondo l’AG, la Commissione avrebbe dovuto sentire le imprese interessate in merito alle modifiche sostanziali che la prima aveva inteso apportare al modello econometrico adottato, tanto più in considerazione del fatto che, come riconosciuto dallo stesso AG, “…dalla configurazione concreta di un modello di concentrazione dei prezzi può dipendere in maniera determinante il numero degli Stati membri per i quali la Commissione prevedrà un ostacolo significativo ad una concorrenza effettiva…”.

Nel caso in esame, infatti, la Commissione aveva in un primo momento ravvisato criticità concorrenziali derivanti dall’implementazione dell’operazione proposta in ben 29 Stati, successivamente ridotti a 15, dei quali in due soltanto (Danimarca e Paesi Bassi) era ipotizzabile un ostacolo effettivo per la concorrenza anche a prescindere dai risultati del modello econometrico controverso. Sotto tale profilo, l’AG ha ravvisato un ulteriore profilo di violazione dei diritti di difesa delle imprese interessate in quanto “…di norma un’impresa può difendersi più facilmente di fronte all’obiezione dell’ostacolo significativo ad una concorrenza effettiva in due soli Stati membri […] che non di fronte all’obiezione vertente sull’ostacolo significativo ad una concorrenza effettiva in 15 Stati membri…anche [nel]la prospettiva di confutare le obiezioni della Commissione mediante l’assunzione di adeguati impegni…”.

Resta ora da vedere se la CdG, chiamata a pronunciarsi definitivamente sulla questione in commento, accoglierà le argomentazioni sostenute dall’AG. In ogni caso, come espressamente riconosciuto anche dallo stesso AG, “…indipendentemente da come la [CdG] si pronuncerà nel presente procedimento, la sua sentenza fungerà da orientamento […] per la futura prassi della Commissione in complesse procedure di controllo delle operazioni di concentrazione, ma anche per quella delle autorità garanti della concorrenza e degli organi giurisdizionali nazionali, i quali, in sede di controllo delle operazioni di concentrazione, non di rado si attengono rigorosamente agli standard in vigore a livello dell’Unione…”.

Martina Bischetti
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Diritto della concorrenza Italia / Intese e rideterminazione della sanzione – Il Consiglio di Stato ha parzialmente accolto il ricorso dell’AGCM in materia di rideterminazione della sanzione con riguardo a un’intesa nel mercato del calcestruzzo, confermando tuttavia l’illiceità della maggiorazione dell’ammenda precedentemente disposta dall’AGCM per mancato pagamento entro il termine

La controversia in oggetto ha inizio nell’ormai lontano 2004, quando l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) aveva accertato l’esistenza di un’intesa collusiva tra diverse società, dal settembre 1999 al dicembre 2002, volta ad alterare la concorrenza nel mercato del calcestruzzo preconfezionato nella provincia di Milano. Le due società ricorrenti per quanto qui di interesse, Calcestruzzi S.p.A. e Unicalcestruzzi S.p.A (congiuntamente, le Ricorrenti), erano state multate rispettivamente per €10.200.000 e €10.000.000. Le società proponevano ricorso al Tar del Lazio (il Tar) il quale, nel 2005, annullava parzialmente il provvedimento, poiché l’infrazione doveva essere qualificata come “grave” e non “molto grave”, come invece valutato dall’AGCM. La pronuncia del Tar veniva successivamente confermata nel 2009 dal Consiglio di Stato, il quale inoltre riscontrava un altro vizio, ossia che l’estensione temporale dell’intesa andava ridotta fino al dicembre 2000, con la conseguenza di rendere applicabile la vecchia formulazione dell’art. 15 l. 287/1990, novellato nel 2001.

Nel 2013, in osservanza del giudicato formatosi, l’AGCM procedeva alla rideterminazione delle sanzioni, riducendole, per quanto riguarda le Ricorrenti, a €8.125.509,49 (Calcestruzzi S.p.A.) e €7.047.922,98 (Unicalcestruzzi S.p.A.). Tuttavia all’importo base veniva aggiunta una maggiorazione del 10%, calcolata a decorrere dal giorno successivo alla scadenza del termine originario. Tale provvedimento è stato impugnato dalle Ricorrenti, e nel 2015 il Tar accoglieva parzialmente i ricorsi, ritenendo che l’AGCM non avesse tenuto debitamente conto della derubricazione a “grave” dell’infrazione e che non fosse dovuta la maggiorazione imposta. In virtù di ciò, il Tar ha ulteriormente ridotto le sanzioni alle Ricorrenti, fissandole attorno ai tre milioni e mezzo di euro. Contro tali sentenze del Tar, proponevano appello al Consiglio di Stato (CdS) sia le Ricorrenti, sui punti non accolti, sia l’AGCM.

Con la sentenza in esame, il CdS ha respinto i motivi addotti dalle Ricorrenti e accolto parzialmente quelli dell’AGCM. In primo luogo, le Ricorrenti hanno riproposto alcuni punti non accolti dal Tar, quali ad esempio il decorso del termine quinquennale di prescrizione e il ritardo del provvedimento di rideterminazione, il computo del fatturato e la mancata considerazione di alcune circostanze attenuanti. Di contro invece, l’AGCM ha contestato la pronuncia del Tar, laddove riteneva che la rideterminazione della sanzione non rispettava il principio di proporzionalità e che la maggiorazione non era dovuta. Sul primo punto, il CdS ha accolto i motivi dell’AGCM, ritenendo scorretti gli argomenti adottati dal Tar per giustificare l’ulteriore riduzione della sanzione. Secondo i giudici di ultima istanza, le sanzioni così come rideterminate dall’AGCM nel 2013 tenevano debitamente conto della derubricazione a “grave” della condotta. Infatti, tali sanzioni ammontano al 2,1% del fatturato rilevante delle due Ricorrenti, percentuale ridotta se si considera il massimo edittale del 10%, e risultano proporzionate e giustificate dalla necessità di dover salvaguardare l’efficacia deterrente delle ammende. Sotto tale profilo dunque, la rideterminazione dell’AGCM era rispettosa delle prescrizioni del giudicato amministrativo.

Inoltre, il CdS ha dato ragione all’AGCM anche sul punto relativo al rispetto del limite edittale minimo dell’1% del fatturato, di cui all’art 15 l. 287/1990 nella vecchia formulazione. Essendo le sanzioni rideterminate dal Tar inferiori a tale percentuale, quest’ultimo aveva ritenuto che l’AGCM dovesse disapplicare tale norma in virtù del contrasto con il principio di proporzionalità di cui all’art. 7 CEDU. Tuttavia, il CdS ha ritenuto che l’AGCM fosse invece vincolata al rispetto di tale limite, poiché il giudicato formatosi con la sentenza del Consiglio di Stato del 2009 statuiva la necessità di applicare l’art. 15 tenendo conto del limite edittale minimo. I giudici del CdS hanno dunque affrontato il punto considerando il tema dei conflitti tra giudicati nazionali e norme comunitarie, ripercorrendo la giurisprudenza comunitaria e nazionale rilevante che stabilisce come il diritto UE non osti all’applicazione delle norme interne procedurali che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, salvo rare eccezioni in cui sia in gioco la ripartizione delle competenze tra Stati membri e Unione europea, non verificatesi in questo caso.

Da ultimo tuttavia, il CdS ha respinto il motivo dell’AGCM relativo alla maggiorazione della sanzione, confermando sul punto la pronuncia del Tar. Infatti, il CdS ha rilevato che i presupposti per la maggiorazione della sanzione, che assume la qualifica di sanzione aggiuntiva, sono l’esigibilità della sanzione principale e il ritardo ultrasemestrale, elementi entrambi non ravvisabili nel caso di specie. Infatti, il dispositivo della sentenza del Tar del 2005, che ha annullato il provvedimento sanzionatorio, era intervenuto prima del decorso del suddetto termine, rendendo dunque la sanzione originaria inesigibile e, pertanto, la maggiorazione non dovuta.

Leonardo Stiz