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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione
Diritto della concorrenza UE / Abuso di posizione dominante e settore dell’intermediazione pubblicitaria nei motori di ricerca – La Commissione europea condanna Google a pagare 1,49 miliardi di Euro
Con la decisione del 20 marzo 2019 la Commissione europea (Commissione) ha inflitto a Google la terza sanzione nell’arco di tre anni per abuso di posizione dominante. Questa volta l’abuso accertato dalla Commissione riguarda il mercato dell’intermediazione pubblicitaria dei motori di ricerca.
Occorre premettere che Google non consente ai motori di ricerca concorrenti (ad esempio Bing e Microsoft) di vendere spazi pubblicitari nelle pagine dei risultati sul proprio browser. Ciò significa che, per i concorrenti di Google sul mercato dell’intermediazione pubblicitaria nei motori di ricerca, l’unica porzione di mercato contendibile è quella relativa ai siti di terzi dotati di motore di ricerca. Alcuni siti web, infatti, come quelli degli aggregatori di siti di viaggio, consentono di effettuare delle ricerche e, insieme ai risultati, mostrano all’utente delle inserzioni pubblicitarie in linea con i risultati. In questo contesto Google opera attraverso lo strumento “AdSense for Search” come intermediario tra gli inserzionisti e i proprietari di siti web (dotati di motori di ricerca) che intendono vendere spazi pubblicitari.
La Commissione ha considerato che Google detenesse una posizione dominante sul mercato europeo dell’intermediazione pubblicitaria dei motori di ricerca, alla luce di una quota di mercato che nel periodo 2006-2016 non è mai scesa sotto il 70%. Per la Commissione, Google ha abusato di tale posizione dominante avendo inserito alcune clausole nei contratti con i proprietari dei siti. Tali clausole sono state suddivise dalla Commissione in tre categorie:
1) clausole di esclusiva, applicate dal 2006 al 2009, che imponevano ai proprietari di siti il divieto di mostrare sulle loro pagine annunci pubblicitari dei concorrenti;
2) clausole di “posizionamento premium”, applicate dal 2009 al 2016, che garantivano che gli spazi pubblicitari più redditizi venissero riservati alle inserzioni fornite da Google, escludendo così i suoi concorrenti dagli spazi più visibili delle pagine web;
3) requisiti di approvazione, applicati dal 2009, imponevano ai proprietari dei siti di ottenere l’approvazione scritta da Google qualora intendessero modificare le modalità con cui gli annunci dei concorrenti venivano pubblicati, consentendo a Google di monitorare costantemente l’attrattività dei concorrenti.
La Commissione ha ritenuto che queste clausole che prevedevano un obbligo di fornitura esclusiva (1) a cui è seguita una strategia di “esclusiva non rigida” (2) e (3) abbiano interessato oltre la metà del mercato in termini di fatturato per gran parte del periodo preso in esame (2006-2016). Google, pertanto, secondo la Commissione ha limitato in modo abusivo la pressione competitiva rappresentata dai suoi concorrenti, con una danno per la concorrenza, per i proprietari di siti, per i consumatori e per l’innovazione. La Commissione ha altresì osservato che Google non ha dimostrato che le clausole in esame fossero in grado di produrre efficienze tali da giustificarle.
Per questi motivi, tenuto conto della durata (10 anni) e della gravità della violazione la Commissione ha sanzionato Google per 1,49 miliardi di Euro, pari all’1,29% del fatturato mondiale della società, a cui saranno con ogni probabilità da aggiungersi le azioni di risarcimento del danno da parte di soggetti terzi.
Resta ora da vedere se la posizione della Commissione sarà condivisa dal Tribunale dell’Unione europea in sede del più che probabile appello della decisione.
Roberta Laghi
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Occorre premettere che Google non consente ai motori di ricerca concorrenti (ad esempio Bing e Microsoft) di vendere spazi pubblicitari nelle pagine dei risultati sul proprio browser. Ciò significa che, per i concorrenti di Google sul mercato dell’intermediazione pubblicitaria nei motori di ricerca, l’unica porzione di mercato contendibile è quella relativa ai siti di terzi dotati di motore di ricerca. Alcuni siti web, infatti, come quelli degli aggregatori di siti di viaggio, consentono di effettuare delle ricerche e, insieme ai risultati, mostrano all’utente delle inserzioni pubblicitarie in linea con i risultati. In questo contesto Google opera attraverso lo strumento “AdSense for Search” come intermediario tra gli inserzionisti e i proprietari di siti web (dotati di motori di ricerca) che intendono vendere spazi pubblicitari.
La Commissione ha considerato che Google detenesse una posizione dominante sul mercato europeo dell’intermediazione pubblicitaria dei motori di ricerca, alla luce di una quota di mercato che nel periodo 2006-2016 non è mai scesa sotto il 70%. Per la Commissione, Google ha abusato di tale posizione dominante avendo inserito alcune clausole nei contratti con i proprietari dei siti. Tali clausole sono state suddivise dalla Commissione in tre categorie:
1) clausole di esclusiva, applicate dal 2006 al 2009, che imponevano ai proprietari di siti il divieto di mostrare sulle loro pagine annunci pubblicitari dei concorrenti;
2) clausole di “posizionamento premium”, applicate dal 2009 al 2016, che garantivano che gli spazi pubblicitari più redditizi venissero riservati alle inserzioni fornite da Google, escludendo così i suoi concorrenti dagli spazi più visibili delle pagine web;
3) requisiti di approvazione, applicati dal 2009, imponevano ai proprietari dei siti di ottenere l’approvazione scritta da Google qualora intendessero modificare le modalità con cui gli annunci dei concorrenti venivano pubblicati, consentendo a Google di monitorare costantemente l’attrattività dei concorrenti.
La Commissione ha ritenuto che queste clausole che prevedevano un obbligo di fornitura esclusiva (1) a cui è seguita una strategia di “esclusiva non rigida” (2) e (3) abbiano interessato oltre la metà del mercato in termini di fatturato per gran parte del periodo preso in esame (2006-2016). Google, pertanto, secondo la Commissione ha limitato in modo abusivo la pressione competitiva rappresentata dai suoi concorrenti, con una danno per la concorrenza, per i proprietari di siti, per i consumatori e per l’innovazione. La Commissione ha altresì osservato che Google non ha dimostrato che le clausole in esame fossero in grado di produrre efficienze tali da giustificarle.
Per questi motivi, tenuto conto della durata (10 anni) e della gravità della violazione la Commissione ha sanzionato Google per 1,49 miliardi di Euro, pari all’1,29% del fatturato mondiale della società, a cui saranno con ogni probabilità da aggiungersi le azioni di risarcimento del danno da parte di soggetti terzi.
Resta ora da vedere se la posizione della Commissione sarà condivisa dal Tribunale dell’Unione europea in sede del più che probabile appello della decisione.
Roberta Laghi
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Aiuti di Stato e settore bancario – Il Tribunale UE annulla la decisione con cui la Commissione europea aveva ritenuto che una misura stabilita dal Fondo interbancario di tutela dei depositi costituisse un aiuto di Stato
Il Tribunale dell’Unione europea (Tribunale), con la propria sentenza del 19 marzo scorso (cause riunite T-98/16, T-196/16 e T-198/16), ha stabilito che la Commissione europea (Commissione) ha errato nel considerare l’intervento disposto dal consorzio di diritto privato italiano Fondo interbancario di tutela dei depositi (FITD) a favore di Cassa di risparmio della Provincia di Teramo S.p.A. (Tercas) un aiuto di Stato illegittimo, e, per l’effetto, ha annullato la decisione della Commissione con la quale quest’ultima ne ordinava il recupero.
L’intervento in discorso è costituito da una misura di sostegno finanziario in favore di Tercas di importo fino a 280 milioni di Euro, stabilita dal FITD ed approvata dalla Banca d’Italia per favorire la sottoscrizione dell’intero capitale di Tercas da parte di Banca Popolare di Bari S.C.p.A. (BPB), a sua volta intesa a scongiurare il dissesto economico di Tercas, già sottoposta ad amministrazione straordinaria. La Commissione aveva qualificato tale misura come aiuto di Stato sulla scorta delle considerazioni attinenti, in primis, al ruolo asseritamente preminente rivestito dalle istituzioni pubbliche nella deliberazione della misura, ed in secondo luogo al mandato pubblico di cui sarebbe destinatario il FITD.
Per quanto riguarda l’influenza asseritamente esercitata dalle istituzioni pubbliche nell’assunzione della decisione di concedere il supporto, il Tribunale ha ritenuto che gli elementi individuati dalla Commissione, ossia, tra gli altri la nomina pubblica dell’amministratore straordinario di Tercas (autore della richiesta dell’aiuto al FITD), nonché il requisito dell’autorizzazione di Banca d’Italia per la validità della concessione della misura, non risultassero sufficienti a determinare un’influenza pubblica di tale intensità da poter attribuire allo Stato la paternità della misura. In particolare, il Tribunale ha osservato che nessun ente pubblico sarebbe stato in grado di costringere il FITD a provvedere in tal senso, e che la dazione della misura è stato approvata unanimemente dalle banche consorziate, confermandone la natura di espressione di volontà privata.
In secondo luogo, il Tribunale ha rilevato che, da un lato, il mandato pubblico attribuito al FITD dall’art. 96 del Testo Unico Bancario (TUB), ovvero quello della tutela dei depositi dei correntisti fino alla somma di 100.000 Euro per correntista, non si estende anche alle altre misure che il FITD ha il potere di assumere; e che, dall’altro, la coincidenza degli interessi del FITD e dello Stato, ed in particolare dell’interesse alla stabilità del settore bancario, non risulta sufficiente ad attribuire natura pubblicistica a una misura erogata nell’eminente interesse delle banche consorziate private.
Il Tribunale ha quindi annullato la decisione con cui la Commissione dichiarava illegittimo l’aiuto e ne ordinava il recupero. Al di là degli effetti pratici nel caso di specie, si tratta di una pronuncia di sicuro interesse in ordine alle future determinazioni in contesti simili (sempre che sia confermata in caso di appello innanzi alla Corte di Giustizia).
Riccardo Fadiga
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L’intervento in discorso è costituito da una misura di sostegno finanziario in favore di Tercas di importo fino a 280 milioni di Euro, stabilita dal FITD ed approvata dalla Banca d’Italia per favorire la sottoscrizione dell’intero capitale di Tercas da parte di Banca Popolare di Bari S.C.p.A. (BPB), a sua volta intesa a scongiurare il dissesto economico di Tercas, già sottoposta ad amministrazione straordinaria. La Commissione aveva qualificato tale misura come aiuto di Stato sulla scorta delle considerazioni attinenti, in primis, al ruolo asseritamente preminente rivestito dalle istituzioni pubbliche nella deliberazione della misura, ed in secondo luogo al mandato pubblico di cui sarebbe destinatario il FITD.
Per quanto riguarda l’influenza asseritamente esercitata dalle istituzioni pubbliche nell’assunzione della decisione di concedere il supporto, il Tribunale ha ritenuto che gli elementi individuati dalla Commissione, ossia, tra gli altri la nomina pubblica dell’amministratore straordinario di Tercas (autore della richiesta dell’aiuto al FITD), nonché il requisito dell’autorizzazione di Banca d’Italia per la validità della concessione della misura, non risultassero sufficienti a determinare un’influenza pubblica di tale intensità da poter attribuire allo Stato la paternità della misura. In particolare, il Tribunale ha osservato che nessun ente pubblico sarebbe stato in grado di costringere il FITD a provvedere in tal senso, e che la dazione della misura è stato approvata unanimemente dalle banche consorziate, confermandone la natura di espressione di volontà privata.
In secondo luogo, il Tribunale ha rilevato che, da un lato, il mandato pubblico attribuito al FITD dall’art. 96 del Testo Unico Bancario (TUB), ovvero quello della tutela dei depositi dei correntisti fino alla somma di 100.000 Euro per correntista, non si estende anche alle altre misure che il FITD ha il potere di assumere; e che, dall’altro, la coincidenza degli interessi del FITD e dello Stato, ed in particolare dell’interesse alla stabilità del settore bancario, non risulta sufficiente ad attribuire natura pubblicistica a una misura erogata nell’eminente interesse delle banche consorziate private.
Il Tribunale ha quindi annullato la decisione con cui la Commissione dichiarava illegittimo l’aiuto e ne ordinava il recupero. Al di là degli effetti pratici nel caso di specie, si tratta di una pronuncia di sicuro interesse in ordine alle future determinazioni in contesti simili (sempre che sia confermata in caso di appello innanzi alla Corte di Giustizia).
Riccardo Fadiga
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La Commissione europea lancia una nuova applicazione che consente la presentazione online di dichiarazioni e documenti nei procedimenti di leniency (ma non solo)
Il 19 marzo scorso la Commissione europea (Commissione) ha lanciato l’app denominata ‘eLeniency’, rendendo possibile per le imprese e i loro legali presentare anche online dichiarazioni e documenti nell’ambito di richieste di trattamento favorevole volte ad ottenere l’immunità o una riduzione delle sanzioni (c.d. leniency), transazioni nei casi di cartelli, nonché nelle procedure di collaborazione in casi diversi dai cartelli volti all’accertamento di violazioni degli articoli 101 e 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.
Lo strumento, il cui utilizzo non è obbligatorio per le imprese che, pertanto, potranno continuare a presentare dichiarazioni e documenti anche secondo l’attuale procedura orale, è volto a semplificare le procedure, consentendo anche un risparmio di tempi e costi.
La Commissione ha dichiarato che il nuovo sistema garantisce le medesime garanzie di riservatezza e tutela giuridica della procedura tradizionale, precisando anche che i dati sono trasferiti in modi sicuro e non potranno essere copiati né stampati. Le dichiarazioni ufficiali afferenti ai programmi di leniency, in particolare, “…sono protette contro la divulgazione in caso di contenzioso civile, allo stesso modo delle dichiarazioni orali…”. Non è del tutto chiaro, tuttavia, come la Commissione possa garantire la non divulgazione di tali dichiarazioni a fronte di un ordine di esibizione delle stesse da parte di un giudice in sede di contenzioso civile.
Resta ora da vedere quale sarà l’impatto concreto dell’introduzione di questo nuovo strumento alla luce delle incertezze ricordate.
Roberta Laghi
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Lo strumento, il cui utilizzo non è obbligatorio per le imprese che, pertanto, potranno continuare a presentare dichiarazioni e documenti anche secondo l’attuale procedura orale, è volto a semplificare le procedure, consentendo anche un risparmio di tempi e costi.
La Commissione ha dichiarato che il nuovo sistema garantisce le medesime garanzie di riservatezza e tutela giuridica della procedura tradizionale, precisando anche che i dati sono trasferiti in modi sicuro e non potranno essere copiati né stampati. Le dichiarazioni ufficiali afferenti ai programmi di leniency, in particolare, “…sono protette contro la divulgazione in caso di contenzioso civile, allo stesso modo delle dichiarazioni orali…”. Non è del tutto chiaro, tuttavia, come la Commissione possa garantire la non divulgazione di tali dichiarazioni a fronte di un ordine di esibizione delle stesse da parte di un giudice in sede di contenzioso civile.
Resta ora da vedere quale sarà l’impatto concreto dell’introduzione di questo nuovo strumento alla luce delle incertezze ricordate.
Roberta Laghi
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Diritto della concorrenza Italia / Abuso di posizione dominante e settore della distribuzione gas - l’AGCM ha avviato un’istruttoria nei confronti di Ireti, Italgas Reti e 2i Rete Gas per la distribuzione del gas nella provincia di Genova
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) lo scorso 21 marzo ha avviato un’istruttoria nei confronti di Ireti S.p.A., Italgas Reti S.p.A. e 2i Rete Gas S.p.A. (le Società) al fine di verificare la sussistenza di un abuso di posizione dominante a fronte della loro qualità di gestori in proroga del servizio di distribuzione del gas in diversi Comuni della Provincia di Genova, concessionari esclusivi del servizio relativamente all’Ambito Territoriale Minimo (ATEM) Genova 1.
In particolare, il Comune di Genova, in qualità di stazione appaltante dell’ATEM in questione, nel mese di dicembre 2018 ha segnalato all’AGCM le criticità riscontrate con i concessionari in questione consistenti nel rifiuto e/o ritardo nel fornire le informazioni necessarie alla predisposizione del bando di gara relativo al nuovo affidamento del servizio di distribuzione del gas. Preme evidenziare come, in base al quadro normativo di riferimento, le gare d’ambito avrebbero dovuto essere espletate entro determinate date, più volte modificate. A tal fine, il Comune di Genova ha inviato diverse richieste di informazioni nei confronti delle Società e incentrate principalmente sulla richiesta di due tipologie di dati: (i) quelle relative al c.d. stato di consistenza degli impianti (inerenti l’indicazione dei tratti di condotte in acciaio non protetti catodicamente e della proprietà dei singoli tratti di rete, inclusi gli anni di posa) e (ii) quelle afferenti il formato della cartografia relativa ad una rappresentazione grafica degli impianti, concernente indicazioni sul materiale delle condotte, il loro diametro e la pressione di esercizio. Come rilevato dall’AGCM, le suddette informazioni sono necessarie per la stazione appaltante al fine di permettere alla stessa di assolvere agli obblighi di legge, ponendo in essere gli adempimenti per bandire le gare per la distribuzione di gas naturale.
Alla luce di ciò, il Comune di Genova, in qualità di stazione appaltante, ha denunciato di aver inviato tre richieste di informazioni ai gestori uscenti dei diversi Comuni del bacino di Genova, rispettivamente in data 2 febbraio 2018, 6 aprile 2018 e 22 giugno 2018 chiedendo loro di fornire la documentazione prevista (aggiornata prima al 31 dicembre 2016 e poi al 31 dicembre 2017) e di aver ricevuto dai soggetti interpellati risposte negative o comunque insufficienti ad integrare il set informativo necessario per redigere il bando di gara. Alla luce di ciò, l’AGCM ha evidenziato come tali condotte rappresentassero dei comportamenti non collaborativi. Ciò, a fronte anche di un quadro di riferimento in cui la gestione del servizio in questione rappresenta un monopolio legale di cui ogni concessionario, per definizione, risulta in posizione dominante. Sul punto quindi l’AGCM ha affermato che “…il comportamento di ciascuno degli operatori incumbent sembrerebbe strumentalmente volto a rifiutare di fornire le informazioni richieste, ritenute indispensabili ai fini della predisposizione degli elaborati necessari per consentire alla stazione appaltante di bandire la gara relativa all’ATEM Genova 1...”.
In relazione alle condotte poste in essere dalle Società, l’AGCM non esclude che ricorrano i presupposti per un intervento cautelare e ne valuterà la sussistenza per verificare se è opportuno impedire che proseguano le condotte in parola. Il procedimento si concluderà entro il 30 marzo 2020.
Il provvedimento in commento si inserisce nell’alveo di una serie di procedimenti in cui l’AGCM, nel corso degli anni, è intervenuta a tutela della concorrenza nel settore dei servizi pubblici liberalizzati a fronte di condotte degli incumbent dirette (almeno in thesi) a ostacolare la tempestiva ed efficace predisposizione di bandi di gara. In tali casi l’AGCM non ha esitato a ordinare l’adizione di misure cautelari. Resta da vedere se ciò avverrà anche nel caso in parola.
Gloria Panaccione
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In particolare, il Comune di Genova, in qualità di stazione appaltante dell’ATEM in questione, nel mese di dicembre 2018 ha segnalato all’AGCM le criticità riscontrate con i concessionari in questione consistenti nel rifiuto e/o ritardo nel fornire le informazioni necessarie alla predisposizione del bando di gara relativo al nuovo affidamento del servizio di distribuzione del gas. Preme evidenziare come, in base al quadro normativo di riferimento, le gare d’ambito avrebbero dovuto essere espletate entro determinate date, più volte modificate. A tal fine, il Comune di Genova ha inviato diverse richieste di informazioni nei confronti delle Società e incentrate principalmente sulla richiesta di due tipologie di dati: (i) quelle relative al c.d. stato di consistenza degli impianti (inerenti l’indicazione dei tratti di condotte in acciaio non protetti catodicamente e della proprietà dei singoli tratti di rete, inclusi gli anni di posa) e (ii) quelle afferenti il formato della cartografia relativa ad una rappresentazione grafica degli impianti, concernente indicazioni sul materiale delle condotte, il loro diametro e la pressione di esercizio. Come rilevato dall’AGCM, le suddette informazioni sono necessarie per la stazione appaltante al fine di permettere alla stessa di assolvere agli obblighi di legge, ponendo in essere gli adempimenti per bandire le gare per la distribuzione di gas naturale.
Alla luce di ciò, il Comune di Genova, in qualità di stazione appaltante, ha denunciato di aver inviato tre richieste di informazioni ai gestori uscenti dei diversi Comuni del bacino di Genova, rispettivamente in data 2 febbraio 2018, 6 aprile 2018 e 22 giugno 2018 chiedendo loro di fornire la documentazione prevista (aggiornata prima al 31 dicembre 2016 e poi al 31 dicembre 2017) e di aver ricevuto dai soggetti interpellati risposte negative o comunque insufficienti ad integrare il set informativo necessario per redigere il bando di gara. Alla luce di ciò, l’AGCM ha evidenziato come tali condotte rappresentassero dei comportamenti non collaborativi. Ciò, a fronte anche di un quadro di riferimento in cui la gestione del servizio in questione rappresenta un monopolio legale di cui ogni concessionario, per definizione, risulta in posizione dominante. Sul punto quindi l’AGCM ha affermato che “…il comportamento di ciascuno degli operatori incumbent sembrerebbe strumentalmente volto a rifiutare di fornire le informazioni richieste, ritenute indispensabili ai fini della predisposizione degli elaborati necessari per consentire alla stazione appaltante di bandire la gara relativa all’ATEM Genova 1...”.
In relazione alle condotte poste in essere dalle Società, l’AGCM non esclude che ricorrano i presupposti per un intervento cautelare e ne valuterà la sussistenza per verificare se è opportuno impedire che proseguano le condotte in parola. Il procedimento si concluderà entro il 30 marzo 2020.
Il provvedimento in commento si inserisce nell’alveo di una serie di procedimenti in cui l’AGCM, nel corso degli anni, è intervenuta a tutela della concorrenza nel settore dei servizi pubblici liberalizzati a fronte di condotte degli incumbent dirette (almeno in thesi) a ostacolare la tempestiva ed efficace predisposizione di bandi di gara. In tali casi l’AGCM non ha esitato a ordinare l’adizione di misure cautelari. Resta da vedere se ciò avverrà anche nel caso in parola.
Gloria Panaccione
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Tutela del consumatore / Privacy e settore delle comunicazioni elettroniche – Secondo l’AG una casella di spunta preimpostata sull’accettazione costituirebbe una violazione della normativa europea sulla protezione dei dati personali
Lo scorso 21 marzo, l’Avvocato Generale Szpunar (AG) ha pubblicato le proprie conclusioni – nell’ambito di un giudizio avviato in seguito alla presentazione di un rinvio pregiudiziale da parte della Corte di giustizia federale tedesca (Corte federale) alla Corte di Giustizia dell’Unione europea (CdG). In particolare, si è pronunciato sull’interpretazione del concetto di ‘valido consenso’ (ai sensi delle disposizioni contenute nella Direttiva n. 58 del 2002 (Direttiva 2002/58), nonché della Direttiva n. 46 del 1995 (Direttiva 95/46)) – in relazione all’acquisto di dati personali attraverso l’utilizzo dello strumento informatico dei cc.dd. ‘cookies’.
Al fine di meglio comprendere la ratio delle conclusioni in esame, occorre introdurre sinteticamente gli aspetti fattuali salienti del giudizio oggetto di rinvio. In data 24 settembre 2013, Planet49 GmbH (Planet49) – società costituita secondo il diritto tedesco e specializzata in attività di marketing e pubblicità – ha organizzato una lotteria a fini promozionali, subordinandone la partecipazione all’accettazione di una serie di condizioni. All’utente, al momento del suo accesso alla relativa pagina web, veniva richiesto di inserire il proprio nome e indirizzo completo. La pagina, inoltre, presentava due ulteriori caselle di spunta. La prima (Casella 1) richiedeva all’utente di acconsentire al trattamento dei suoi dati personali da parte di agenti commerciali per l’invio di messaggi promozionali mirati. La seconda (Casella 2), a differenza della precedente, veniva presentata all’utente come preimpostata sull’opzione di accettazione e riguardava l’installazione di una serie di cookies diretti ad agevolare la raccolta di informazioni commercialmente rilevanti. L’effettiva partecipazione alla summenzionata lotteria era, infine, subordinata all’accettazione di – almeno – la prima delle sopra-descritte caselle.
In relazione a ciò, la Corte federale ha richiesto alla CdG di valutare se il consenso alla raccolta di informazioni attuata tramite cookies, di fatto ottenuto attraverso la mancata de-selezione di una casella previamente impostata sull’accettazione, sia da considerarsi un consenso ‘valido’ ai sensi degli articoli 5(3) e 2(f) della Direttiva 2002/58 e 2(h) della Direttiva 95/46.
L’AG, al fine di rispondere alle questioni sollevate, ha attentamente analizzato la normativa applicabile e ha concluso quanto segue. La Direttiva 95/46 stabilisce che il consenso, per essere valido (quindi libero e consapevole), deve soddisfare due requisiti, ossia essere manifestato: i) in modo ‘attivo’ e ii) ‘separato’. In relazione al primo punto, l’AG ha stabilito come una mera acquiescenza da parte dell’utente (la quale potrebbe trovare radici anche nella superficialità di quest’ultimo) nei confronti di una casella previamente preimpostata sull’accettazione non sarebbe sufficiente per qualificare il consenso come ‘attivo’. In relazione al secondo requisito, l’AG ha respinto l’argomentazione presentata da Planet49 secondo cui il consenso prestato dall’utente sarebbe valido perché attivamente espresso nel momento in cui quest’ultimo abbia cliccato sul ‘bottone’ di partecipazione alla lotteria. A tal proposito, infatti, l’AG ha ricordato che il consenso deve essere anche ‘separato’. Secondo l’AG, ciò significa che l’attività svolta dall’utente e la prestazione del proprio consenso devono costituire due atti distinti.
Non ci resta che attendere la pronuncia della sentenza per vedere se la CdG adotterà l’approccio argomentativo dell’AG. In caso positivo, la relativa pronuncia avrà effetti di notevole importanza per tutti i gestori di siti web che raccolgono il consenso del consumatore tramite caselle preselezionate in quanto tale condotta sarà in linea di principio considerata contraria alla normativa UE sul trattamento dei dati personali e quindi potenzialmente sanzionabile.
Luca Feltrin
Al fine di meglio comprendere la ratio delle conclusioni in esame, occorre introdurre sinteticamente gli aspetti fattuali salienti del giudizio oggetto di rinvio. In data 24 settembre 2013, Planet49 GmbH (Planet49) – società costituita secondo il diritto tedesco e specializzata in attività di marketing e pubblicità – ha organizzato una lotteria a fini promozionali, subordinandone la partecipazione all’accettazione di una serie di condizioni. All’utente, al momento del suo accesso alla relativa pagina web, veniva richiesto di inserire il proprio nome e indirizzo completo. La pagina, inoltre, presentava due ulteriori caselle di spunta. La prima (Casella 1) richiedeva all’utente di acconsentire al trattamento dei suoi dati personali da parte di agenti commerciali per l’invio di messaggi promozionali mirati. La seconda (Casella 2), a differenza della precedente, veniva presentata all’utente come preimpostata sull’opzione di accettazione e riguardava l’installazione di una serie di cookies diretti ad agevolare la raccolta di informazioni commercialmente rilevanti. L’effettiva partecipazione alla summenzionata lotteria era, infine, subordinata all’accettazione di – almeno – la prima delle sopra-descritte caselle.
In relazione a ciò, la Corte federale ha richiesto alla CdG di valutare se il consenso alla raccolta di informazioni attuata tramite cookies, di fatto ottenuto attraverso la mancata de-selezione di una casella previamente impostata sull’accettazione, sia da considerarsi un consenso ‘valido’ ai sensi degli articoli 5(3) e 2(f) della Direttiva 2002/58 e 2(h) della Direttiva 95/46.
L’AG, al fine di rispondere alle questioni sollevate, ha attentamente analizzato la normativa applicabile e ha concluso quanto segue. La Direttiva 95/46 stabilisce che il consenso, per essere valido (quindi libero e consapevole), deve soddisfare due requisiti, ossia essere manifestato: i) in modo ‘attivo’ e ii) ‘separato’. In relazione al primo punto, l’AG ha stabilito come una mera acquiescenza da parte dell’utente (la quale potrebbe trovare radici anche nella superficialità di quest’ultimo) nei confronti di una casella previamente preimpostata sull’accettazione non sarebbe sufficiente per qualificare il consenso come ‘attivo’. In relazione al secondo requisito, l’AG ha respinto l’argomentazione presentata da Planet49 secondo cui il consenso prestato dall’utente sarebbe valido perché attivamente espresso nel momento in cui quest’ultimo abbia cliccato sul ‘bottone’ di partecipazione alla lotteria. A tal proposito, infatti, l’AG ha ricordato che il consenso deve essere anche ‘separato’. Secondo l’AG, ciò significa che l’attività svolta dall’utente e la prestazione del proprio consenso devono costituire due atti distinti.
Non ci resta che attendere la pronuncia della sentenza per vedere se la CdG adotterà l’approccio argomentativo dell’AG. In caso positivo, la relativa pronuncia avrà effetti di notevole importanza per tutti i gestori di siti web che raccolgono il consenso del consumatore tramite caselle preselezionate in quanto tale condotta sarà in linea di principio considerata contraria alla normativa UE sul trattamento dei dati personali e quindi potenzialmente sanzionabile.
Luca Feltrin