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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione
Diritto della concorrenza UE/Aiuti di Stato e vantaggi fiscali – Il Tribunale UE sancisce che Apple non ha ricevuto un trattamento fiscale di favore dal governo irlandese
Il 15 luglio scorso il Tribunale dell’Unione europea (Tribunale) ha annullato la decisione della Commissione europea (Commissione) con cui era stato accertato che l’Irlanda aveva concesso a Apple Sales International (ASI) e Apple Operations Europe (AOE), due società di diritto irlandese ma non residenti in Irlanda a fini tributari, e titolari dei diritti d'uso della proprietà intellettuale del gruppo Apple in tutto il mondo escluso il Nord e Sudamerica, vantaggi fiscali indebiti per un totale di 13 miliardi di euro. Secondo il Tribunale la Commissione non avrebbe dimostrato l’esistenza di un vantaggio idoneo a falsare la concorrenza ai sensi dell’art. 107(1) TFUE.Il 30 agosto 2016 la Commissione aveva ritenuto che i due ruling fiscali emanati nel 1991 e nel 2007 dalle autorità fiscali irlandesi (Irish Revenue) nei confronti di ASI e AOE costituissero aiuti di Stato incompatibili con il diritto UE. In particolare, mediante i due ruling fiscali era stato approvato un meccanismo per l’allocazione dei diritti di proprietà intellettuale detenuti dai ASI e AOE alla loro “sede centrale”, la quale non era ubicata in nessun paese e non aveva alcuna attività sostanziale. Solo una minima quota degli utili derivanti dai diritti di proprietà intellettuale detenuti da ASI e AOE veniva assegnata alla loro filiale irlandese e, di conseguenza, assoggettata a imposta in Irlanda, mentre la quota rimanente, ossia la stragrande maggioranza degli utili, veniva assegnata alla "sede centrale". La Commissione aveva concluso che i ruling fiscali emanati dall'Irlanda consentissero un'assegnazione interna artificiale degli utili di ASI e AOE, i quali venivano attribuiti ad un’entità che non disponeva della capacità necessaria per generare reddito dall'attività commerciale. Tale meccanismo sarebbe stato in contrasto con il principio dell’arm’s lenght principle secondo il quale, ai fini fiscali, i soggetti “collegati” appartenenti al medesimo gruppo multinazionale devono allocare il reddito secondo modalità applicabili tra soggetti terzi indipendenti. La Commissione aveva quindi ordinato il recupero da parte dell’Irlanda delle imposte non versate da ASI e AOE nel periodo 2003-2014, per un totale di 13 miliardi di euro più interessi.
Con la sentenza in esame il Tribunale ha invece ritenuto che la Commissione non sia stata in grado di dimostrare che l’accordo tra Apple e le autorità fiscali irlandesi rappresenti “un vantaggio economico selettivo” e, quindi, un aiuto di Stato.
In primo luogo, il Tribunale ha avvallato la ricostruzione della Commissione relativa alla normativa fiscale irlandese applicabile al caso di specie. Inoltre, ha riconosciuto che la Commissione, attraverso l’applicazione dell’arm’s lenght principle, possa valutare se una misura fiscale relativa agli utili imponibili di una società non residente imponga un onere fiscale corrispondente a quello che sarebbe stato posto a carico di una società residente che svolge le proprie attività in condizioni di mercato.
Il Tribunale, tuttavia, ha rilevato che la Commissione nel caso specifico sia incorsa in errore nell’interpretazione della legge fiscale irlandese. Citando, in particolare, la giurisprudenza Dataproducts, il Tribunale ha dichiarato che la questione rilevante nel determinare i profitti di una filiale di una società non residente in Irlanda è se la filiale detiene il controllo effettivo sugli asset da cui derivano gli utili. Secondo il Tribunale, la Commissione non aveva provato che le filiali irlandesi di ASI e AOE detenessero effettivamente il controllo sulle licenze IP del gruppo Apple e che, di conseguenza, tutti i ricavi di ASI e AOE avrebbero dovuto essere considerati come derivanti dalle attività di tali filiali.
Allo stesso modo, il Tribunale ha affermato che la Commissione non aveva applicato l’arm’s lenght principle correttamente. La Commissione, infatti, non avrebbe dimostrato che le licenze IP del gruppo Apple detenute da ASI e da AOE avrebbero dovuto essere allocate alle loro filiali irlandesi in virtù delle attività effettivamente svolte dalle stesse, limitandosi a sostenere che l’attribuzione del fatturato alle filiali irlandese fosse una conseguenza della mancanza di personale e della presenza fisica delle “sedi centrali” di ASI e AOE.
A tal riguardo, il Tribunale ha accertato che le filiali irlandesi di ASI e AOE esercitavano attività di supporto per l'attuazione di politiche e strategie progettate e adottate al di fuori delle filiali stesse, in particolare per quanto riguarda la ricerca, lo sviluppo e la commercializzazione di prodotti a marchio Apple. Il Tribunale ha verificato altresì che il processo decisionale strategico del gruppo Apple fosse stato centralizzato a Cupertino e che ASI e AOE avessero attuato tali decisioni attraverso i loro organi di gestione senza che le filiali irlandesi partecipassero attivamente al processo decisionale.
Inoltre, il Tribunale ha ritenuto che la Commissione non sia riuscita a dimostrare alcuni errori metodologici nei ruling fiscali che avrebbero portato a una riduzione dei profitti imputabili a ASI e a AOE in Irlanda. Sebbene il Tribunale deplori il carattere incompleto e talvolta incoerente delle decisioni fiscali contestate, esso ha considerato che i difetti individuati dalla Commissione non fossero di per sé sufficienti a dimostrare l'esistenza di un vantaggio ai sensi dell'articolo 107, paragrafo 1, TFUE.
Infine, il Tribunale ha ritenuto che la Commissione non abbia dimostrato che le decisioni fiscali contestate fossero il risultato del potere discrezionale esercitato dalle autorità fiscali irlandesi e che, di conseguenza, ASI e AOE avessero ottenuto un vantaggio selettivo.
In conclusione, con la sentenza in esame il Tribunale ha analizzato in maniera approfondita il ragionamento della Commissione, stravolgendo la ricostruzione dei fatti operata da quest’ultima; ciononostante la Commissione, attraverso le parole del Commissario europeo alla concorrenza Margrethe Vestager, ritiene ancora di poter far valere le proprie ragioni nel corso del probabile appello, inquadrando la lotta contro la pianificazione fiscale aggressiva come una “maratona”.
Luigi Eduardo Bisogno
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Abusi e settore farmaceutico – La Commissione europea sottopone al market test gli impegni presentati da Aspen
Lo scorso 14 luglio, la Commissione europea (Commissione) ha pubblicato un press release (accompagnato da un documento contenente alcune Q&A al riguardo) mediante il quale ha invitato tutti i soggetti interessati a formulare osservazioni (entro due mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) in relazione agli impegni presentati da Aspen (gli Impegni) con riferimento alla condotta contestata dalla Commissione concernente l’abuso della propria posizione dominante ex art. 102 TFUE posto in essere, in diversi mercati nazionali, mediante l’applicazione di prezzi eccessivi per alcuni farmaci antitumorali non protetti da brevetto (i Farmaci).
Gli Impegni prevedono la riduzione di circa il 73% dei prezzi applicati a livello europeo per i Farmaci. Tali prezzi rappresenteranno (con effetto retroattivo, già dall’ottobre 2019) i prezzi massimi che Aspen potrà applicare per 10 anni; trascorsi i primi 5 anni di questo periodo decennale, Aspen, assistito da un monitoring trustee indipendente, potrà modificare i prezzi oggetto degli Impegni, solo laddove emergesse un incremento di almeno il 20% dei costi sottesi alla produzione di tali farmaci, così da mantenere inalterato l’equilibrio tra costi sostenuti e prezzi praticati.
Inoltre, la fornitura dei Farmaci sarà garantita nel periodo 2020 – 2024, mentre per il successivo quinquennio (2025 – 2029) Aspen potrà continuare a fornirli o metterà la propria autorizzazione all’immissione al commercio a disposizione di altri fornitori.
Tali Impegni sono stati proposti all’esito dell’analisi preliminare effettuata dalla Commissione da cui sono emersi i profitti estremamente elevati realizzati da Aspen nello Spazio Economico Europeo attraverso la vendita dei Farmaci; ciò in ragione del fatto che i prezzi applicati dalla stessa società superavano di quasi il 300% i relativi costi sostenuti, senza che vi fosse alcuna immediata giustificazione quale, ad esempio, il recupero dell’investimento iniziale, dato che i Farmaci non erano più coperti da brevetto da 50 anni.
L’Italia è stata esclusa dall’indagine in ragione del fatto che, già nel 2016, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) aveva già sanzionato per oltre 5 milioni di euro Aspen per la condotta in questione (infrazione e sanzione confermata successivamente anche dal giudice amministrativo di primo e secondo grado).
Nei documenti pubblicati, la Commissione dà comunque conto del lavoro congiunto effettuato attraverso l’European Competition Network (anche nel settore farmaceutico) e della cooperazione particolarmente rafforzata, tra le altre, con l’AGCM, sia all’epoca dell’istruttoria nazionale, sia nell’ambito dell’indagine europea in commento.
Sarà interessante comprendere quale sarà la reazione del mercato agli impegni proposti da Aspen e le conseguenti valutazioni che la Commissione effettuerà al momento della conclusione della propria indagine.
Filippo Alberti
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Gli Impegni prevedono la riduzione di circa il 73% dei prezzi applicati a livello europeo per i Farmaci. Tali prezzi rappresenteranno (con effetto retroattivo, già dall’ottobre 2019) i prezzi massimi che Aspen potrà applicare per 10 anni; trascorsi i primi 5 anni di questo periodo decennale, Aspen, assistito da un monitoring trustee indipendente, potrà modificare i prezzi oggetto degli Impegni, solo laddove emergesse un incremento di almeno il 20% dei costi sottesi alla produzione di tali farmaci, così da mantenere inalterato l’equilibrio tra costi sostenuti e prezzi praticati.
Inoltre, la fornitura dei Farmaci sarà garantita nel periodo 2020 – 2024, mentre per il successivo quinquennio (2025 – 2029) Aspen potrà continuare a fornirli o metterà la propria autorizzazione all’immissione al commercio a disposizione di altri fornitori.
Tali Impegni sono stati proposti all’esito dell’analisi preliminare effettuata dalla Commissione da cui sono emersi i profitti estremamente elevati realizzati da Aspen nello Spazio Economico Europeo attraverso la vendita dei Farmaci; ciò in ragione del fatto che i prezzi applicati dalla stessa società superavano di quasi il 300% i relativi costi sostenuti, senza che vi fosse alcuna immediata giustificazione quale, ad esempio, il recupero dell’investimento iniziale, dato che i Farmaci non erano più coperti da brevetto da 50 anni.
L’Italia è stata esclusa dall’indagine in ragione del fatto che, già nel 2016, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) aveva già sanzionato per oltre 5 milioni di euro Aspen per la condotta in questione (infrazione e sanzione confermata successivamente anche dal giudice amministrativo di primo e secondo grado).
Nei documenti pubblicati, la Commissione dà comunque conto del lavoro congiunto effettuato attraverso l’European Competition Network (anche nel settore farmaceutico) e della cooperazione particolarmente rafforzata, tra le altre, con l’AGCM, sia all’epoca dell’istruttoria nazionale, sia nell’ambito dell’indagine europea in commento.
Sarà interessante comprendere quale sarà la reazione del mercato agli impegni proposti da Aspen e le conseguenti valutazioni che la Commissione effettuerà al momento della conclusione della propria indagine.
Filippo Alberti
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Diritto della concorrenza Italia/Concentrazioni e settore bancario – L’AGCM autorizza con condizioni l’acquisizione di UBI da parte di Intesa Sanpaolo
Lo scorso 14 luglio, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha autorizzato l’acquisizione da parte di Intesa Sanpaolo S.p.A. (ISP) di UBI – Unione di Banche Italiane S.p.A. (UBI)(l’Operazione). Nello specifico, l’Operazione consiste nel perfezionamento di un Offerta Pubblica di Scambio (OPS) annunciata il 17 febbraio 2020, ai sensi della quale ISP corrisponderà 17 proprie azioni di nuova emissione per ogni dieci azioni di UBI portate in adesione all’OPS, con l’intento di effettuare il delisting di UBI e incorporarla nella propria struttura. Contestualmente alla decisione di promuovere l’OPS, ISP si è altresì impegnata a cedere a BPER Banca S.p.A. (BPER) un ramo di azienda UBI composto da un numero di filiali compreso tra le 400 e le 500.
L’AGCM ha valutato gli effetti dell’Operazione non solo con riferimento ai diversi mercati interessati ma anche relativamente al contesto bancario nazionale e al potenziale impatto sistemico dell’operazione. In particolare, l’AGCM ha rilevato la presenza in Italia di due soli gruppi bancari di grandi dimensioni, facenti capo a ISP e Unicredit S.p.A. (Unicredit) attivi sull’intero territorio nazionale nonché in grado di svolgere un ruolo significativo anche a livello sovranazionale. Tali due gruppi si contrappongono ai vari gruppi di medie dimensioni che sono attivi in alcune regioni italiane, tra cui il gruppo facente capo a UBI. Rispetto a tale contesto, l’AGCM si è interrogata sulla pressione concorrenziale esercitata da UBI rispetto a ISP e Unicredit: invero, sia UBI, sia la stessa Unicredit, nel corso del procedimento, hanno dichiarato di ritenere UBI un operatore particolarmente dinamico – c.d. maverick – in grado di esercitare una pressione concorrenziale notevole, nonché unico soggetto diverso dai due maggiori player ISP e Unicredit con capacità di integrazione e aggregazione, attraverso operazioni di crescita esterna, che potrebbe essere prospetticamente considerato come un terzo polo bancario attivo sul mercato italiano.
L’AGCM non ha condiviso questa impostazione, piuttosto considerando la definizione di maverick più adattabile a imprese, solitamente di recente ingresso nel mercato, con forte carica innovativa e capacità disruptive rispetto all’assetto di mercato esistente; generalmente operatori di piccole dimensioni, che pongono in essere una concorrenza aggressiva, tale da consentire una crescita significativa – tutte caratteristiche che l’AGCM non ha ravvisato in UBI, che si presenta invece come operatore tradizionale, con forte radicamento territoriale. Nello stesso tempo, l’AGCM ha rilevato l’impatto potenzialmente significativo della cessione del ramo d’impresa UBI, a cui potrebbe conseguire un’importante crescita dimensionale del nuovo acquirente dello stesso.
Peraltro, l’AGCM ha rilevato la potenziale idoneità a produrre la costituzione e/o il rafforzamento della posizione dominante di ISP in alcuni dei mercati interessati tra cui nei mercati locali rispetto ai quali l’AGCM ha rilevato la sovrapposizione delle parti nelle catchment area delle rispettive filiali. Tuttavia, l’AGCM ha valutato che le cessioni prospettate da ISP risultano idonee a rimuovere le criticità concorrenziali. Tutto considerato, l’AGCM ha approvato l’Operazione, a condizione che ISP dia esecuzione alle misure prospettate, tra cui la cessione degli sportelli interessati.
L’AGCM ha confermato la definizione molto ristretta dei mercati locali da considerare relativamente alle concentrazioni tra istituti bancari, come da prassi che va consolidandosi. Nonostante questo, il caso risulta interessante anche per le evidenti e approfondite considerazioni svolte sul sistema bancario nel suo complesso. È inoltre significativa l’interpretazione che l’AGCM ha dato del ruolo svolto dagli operatori di medie dimensioni, che prospetta un certo dinamismo del mercato e l’esistenza di pressione competitiva anche nei confronti degli operatori più affermati.
Riccardo Fadiga
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L’AGCM ha valutato gli effetti dell’Operazione non solo con riferimento ai diversi mercati interessati ma anche relativamente al contesto bancario nazionale e al potenziale impatto sistemico dell’operazione. In particolare, l’AGCM ha rilevato la presenza in Italia di due soli gruppi bancari di grandi dimensioni, facenti capo a ISP e Unicredit S.p.A. (Unicredit) attivi sull’intero territorio nazionale nonché in grado di svolgere un ruolo significativo anche a livello sovranazionale. Tali due gruppi si contrappongono ai vari gruppi di medie dimensioni che sono attivi in alcune regioni italiane, tra cui il gruppo facente capo a UBI. Rispetto a tale contesto, l’AGCM si è interrogata sulla pressione concorrenziale esercitata da UBI rispetto a ISP e Unicredit: invero, sia UBI, sia la stessa Unicredit, nel corso del procedimento, hanno dichiarato di ritenere UBI un operatore particolarmente dinamico – c.d. maverick – in grado di esercitare una pressione concorrenziale notevole, nonché unico soggetto diverso dai due maggiori player ISP e Unicredit con capacità di integrazione e aggregazione, attraverso operazioni di crescita esterna, che potrebbe essere prospetticamente considerato come un terzo polo bancario attivo sul mercato italiano.
L’AGCM non ha condiviso questa impostazione, piuttosto considerando la definizione di maverick più adattabile a imprese, solitamente di recente ingresso nel mercato, con forte carica innovativa e capacità disruptive rispetto all’assetto di mercato esistente; generalmente operatori di piccole dimensioni, che pongono in essere una concorrenza aggressiva, tale da consentire una crescita significativa – tutte caratteristiche che l’AGCM non ha ravvisato in UBI, che si presenta invece come operatore tradizionale, con forte radicamento territoriale. Nello stesso tempo, l’AGCM ha rilevato l’impatto potenzialmente significativo della cessione del ramo d’impresa UBI, a cui potrebbe conseguire un’importante crescita dimensionale del nuovo acquirente dello stesso.
Peraltro, l’AGCM ha rilevato la potenziale idoneità a produrre la costituzione e/o il rafforzamento della posizione dominante di ISP in alcuni dei mercati interessati tra cui nei mercati locali rispetto ai quali l’AGCM ha rilevato la sovrapposizione delle parti nelle catchment area delle rispettive filiali. Tuttavia, l’AGCM ha valutato che le cessioni prospettate da ISP risultano idonee a rimuovere le criticità concorrenziali. Tutto considerato, l’AGCM ha approvato l’Operazione, a condizione che ISP dia esecuzione alle misure prospettate, tra cui la cessione degli sportelli interessati.
L’AGCM ha confermato la definizione molto ristretta dei mercati locali da considerare relativamente alle concentrazioni tra istituti bancari, come da prassi che va consolidandosi. Nonostante questo, il caso risulta interessante anche per le evidenti e approfondite considerazioni svolte sul sistema bancario nel suo complesso. È inoltre significativa l’interpretazione che l’AGCM ha dato del ruolo svolto dagli operatori di medie dimensioni, che prospetta un certo dinamismo del mercato e l’esistenza di pressione competitiva anche nei confronti degli operatori più affermati.
Riccardo Fadiga
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Tutela del consumatore/Tutela del consumatore e clausole abusive – La Corte di Giustizia chiarisce le ipotesi in cui, nei contratti stipulati tra un professionista e un consumatore, il consumatore può validamente rinunciare ad avvalersi della tutela della direttiva 93/13/CEE sulle clausole abusive
Con la sentenza del 9 luglio 2020 la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CdG), nell’ambito di un rinvio pregiudiziale proposto da un giudice spagnolo, ha fornito utili chiarimenti in merito all’interpretazione di alcune disposizioni della direttiva 93/13/CEE del Consiglio concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (la Direttiva).
La vicenda da cui trae origine il rinvio pregiudiziale riguardava l’acquisto di un immobile da un promotore immobiliare effettuato da XZ, avvenuto nel 2011. XZ era subentrato al promotore come debitore del mutuo ipotecario gravante sull’immobile acquistato. Il contratto di mutuo ipotecario in parola, stipulato con l’Ibercaja Banco (Ibercaja), conteneva una clausola sui tassi d’interesse che prevedeva l’applicazione di un tasso d’interesse massimo e minimo. Tuttavia, nel 2013 la Corte suprema spagnola aveva dichiarato abusive, e dunque nulle, per mancanza dei requisiti di chiarezza e trasparenza le clausole di ‘tasso minimo’ contenute nei contratti di mutuo ipotecario. Successivamente, il contratto di mutuo ipotecario tra XZ e Ibercaja era stato modificato (Contratto di Novazione), prevedendo un tasso minimo inferiore al tasso di interesse minimo originariamente previsto, nonché la reciproca rinuncia da parte di XZ e Ibercaja a esercitare qualsivoglia azione nei confronti dell’altra parte con riguardo al contratto, le sue clausole e i pagamenti connessi sino ad allora effettuati.
La prima delle questioni poste dal giudice nazionale riguardava la possibilità che dalla dichiarazione di nullità della clausola di ‘tasso minimo’ originariamente prevista potesse discendere la nullità derivata anche degli atti successivi, in particolare del Contratto di Novazione.
In proposito, la Corte ha chiarito che la Direttiva non si spinge sino al punto di rendere obbligatorio il sistema di tutela del consumatore previsto dalla stessa. Pertanto, un consumatore può stipulare un contratto di novazione avente ad oggetto una clausola il cui carattere abusivo è suscettibile di essere dichiarato da un giudice, rinunciando agli effetti che deriverebbero dalla dichiarazione di abusività di detta clausola, a condizione che egli sia consapevole del carattere non vincolante della clausola abusiva e la sua rinuncia sia dunque il frutto di un consenso libero e informato, circostanza quest’ultima che spetta al giudice nazionale verificare.
Inoltre, com’è noto, la verifica circa il carattere abusivo delle clausole contenute in un contratto stipulato tra un professionista ed un consumatore verte solo su clausole che non siano state oggetto di negoziato individuale, ossia clausole predisposte dal professionista per un utilizzo generalizzato e sul cui contenuto il consumatore non abbia potuto esercitare alcuna influenza. A questo proposito, nella sentenza in parola la CdG ha chiarito che una clausola contenuta in un contratto tra un consumatore e un professionista, volta a modificare una clausola potenzialmente abusiva in un precedente contratto tra le stesse parti, ovvero volta a disciplinare le conseguenze del carattere abusivo di quest’ultima clausola, può essere considerata come non oggetto di negoziato individuale e, dunque, sottoposta al vaglio del suo carattere abusivo. Inoltre, precisa, la CdG, è compito del giudice nazionale verificare se le condizioni in cui tale clausola è stata sottoposta al consumatore consentivano a quest’ultimo di esercitare un’influenza sul contenuto di detta clausola, senza che possa essere considerata dirimente a tal fine la circostanza che il consumatore abbia apposto accanto alla propria firma una dichiarazione manoscritta che indicava che avesse compreso il meccanismo della clausola di ‘tasso minimo’.
Infine, è di particolare interesse la valutazione operata dalla CdG circa la clausola con la quale un professionista ed un consumatore rinunciano reciprocamente alle azioni giudiziarie per far valere pretese relative (i) alla clausola iniziale modificata dal contratto di novazione e (ii) alla clausola novatoria.
Con riguardo al punto (i), la CdG ribadisce che le disposizioni della Direttiva non ostano a che un consumatore rinunci contrattualmente ai benefici che potrebbe trarre dalla dichiarazione di abusività di una clausola, a condizione che detta rinuncia sia frutto di un consenso libero e informato.
Pertanto, la clausola contenuta in un accordo transattivo concluso tra un professionista e un consumatore volto a comporre una controversia esistente (nel caso di specie quella concernente il potenziale carattere abusivo dell’originaria clausola di ‘tasso minimo’) con la quale il consumatore rinuncia a far valere dinnanzi al giudice nazionale le pretese che avrebbe potuto far valere in assenza di tale clausola, può essere dichiarata abusiva solo a condizione che il consumatore al momento della stipula non disponesse delle informazioni che gli avrebbero consentito di comprendere le conseguenze giuridiche che gliene sarebbero derivate, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare.
Diversamente, con riguardo al punto (ii), la CdG chiarisce che “…un consumatore non può validamente impegnarsi a rinunciare per il futuro alla tutela giurisdizionale e ai diritti conferitigli dalla [D]irettiva. Il consumatore non può, infatti, per definizione, comprendere le conseguenze della sua adesione a una tale clausola trattandosi di controversie suscettibili di sorgere in futuro…”. In particolare, spiega la CdG, “…l’art. 6, par. 1 della [D]irettiva, ai sensi del quale gli Stati Membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, ha carattere imperativo”. Da questo discende che “…riconoscere la possibilità di una rinuncia preventiva del consumatore ai diritti che gli derivano dal sistema di tutela attuato da tale direttiva sarebbe in contrasto con il carattere imperativo di tale disposizione e comprometterebbe l’efficacia di tale sistema”. Sulla base di queste considerazioni, la CdG ha concluso che la clausola con cui un consumatore rinuncia, con riferimento alle controversie future, alle azioni giudiziarie volte a far valere i diritti che gli sono conferiti dalla Direttiva non vincola il consumatore.
La sentenza in parola fornisce utili chiarimenti in merito alle ipotesi in cui un consumatore, nel quadro di un contratto stipulato con un professionista, possa validamente rinunciare alla tutela approntata in suo favore dalla Direttiva. La CdG conferma l’adozione di un’interpretazione improntata al favor per il consumatore che si spinge sino a sancire un’inefficacia asimmetrica in favore di questi con riguardo alle clausole con cui egli, consapevolmente, rinuncia pro futuro ad agire giudizialmente per la tutela dei diritti previsti dalla Direttiva. Non resta che vedere se questo approccio così vantaggioso per il consumatore sarà confermato anche in futuro.
Roberta Laghi
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