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Newsletter

Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE/Azioni di risarcimento e informazioni confidenziali – La Commissione ha pubblicato una comunicazione sulla protezione delle informazioni riservate da parte dei tribunali nazionali

Lo scorso 22 luglio, la Commissione europea (la Commissione) ha pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea una comunicazione (la Comunicazione) tramite cui ha inteso illustrare alle corti nazionali attive in giudizi civili relativi all’applicazione degli articoli 101 e 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE) i criteri da seguire al fine di assicurare un adeguato livello di protezione delle informazioni riservate e sensibili il cui accesso alle parti della causa potrebbe essere richiesto al fine di garantire l’esercizio pieno dei loro diritti (come ad esempio il diritto ad un contraddittorio pieno ed effettivo, nonché il diritto di difesa).

Com’è risaputo, i comportamenti contrari al diritto della concorrenza possono recare pregiudizi molto gravi non solo in generale al mercato ma anche più in particolare a singoli soggetti (consumatori finali o imprese). Il diritto europeo – tramite la Direttiva n. 104 del 2014 (Direttiva 104) – riconosce alle vittime di tali condotte il diritto al risarcimento dei danni subiti, attraverso la proposizione di azioni dinnanzi ai rispettivi giudici nazionali competenti. In tale ambito, l’accesso agli elementi di prova su cui l’autorità pubblica competente (la quale può essere la Commissione oppure l’autorità nazionale garante della concorrenza) ha basato il proprio provvedimento di accertamento dell’infrazione antitrust, nonché quelli in possesso delle parti sanzionate, è un elemento che riveste natura fondamentale per l’applicazione in maniera efficace dei diritti spettanti ai soggetti nelle rispettive azioni di risarcimenti danni.

I giudici nazionali possono infatti ricevere richieste di accesso a prove necessarie per dimostrare il danno subito le quali, tuttavia, contengono informazioni riservate (in quanto, per esempio, di natura commercialmente sensibile). Sul punto, la summenzionata Direttiva 104 impone agli Stati UE di garantire che i giudici nazionali siano messi in grado di poter ordinare la divulgazione di determinati elementi probatori a patto che la richiesta avanzata, la quale deve indicare specifici elementi di prova “nel modo più preciso e circoscritto possibile”, soddisfi una serie di criteri, ossia: i) che sia plausibile; ii) che le prove richieste siano pertinenti; e iii) che risulti proporzionata (richieste di accesso eccessivamente generiche e non circostanziate saranno quindi destinate ad essere oggetto di rigetto); allo stesso tempo, la Direttiva 104 richiede che gli stessi giudici possano disporre di misure efficaci per proteggere informazioni sensibili eventualmente contenute nei suddetti elementi probatori. Infatti, la protezione di segreti commerciali e di informazioni riservate rappresenta un principio generale e fondamentale del diritto UE, così come sancito dall’articolo 339 TFUE.

La Commissione, tuttavia, pone l’accento sul fatto che la natura riservata di determinate informazioni non comporta un divieto assoluto alla loro divulgazione: spetta, infatti, ai giudici decidere caso per caso) e tale divulgazione deve rispettare determinati vincoli necessari ad evitare un grave nocumento alla parte interessata dall’informazione stessa.

Sul punto, la Comunicazione qualifica come ‘riservate’ (e, pertanto, meritevoli di tutela) le informazioni che soddisfano – cumulativamente – le seguenti condizioni: i) il loro contenuto è conosciuto da un numero ristretto di soggetti; ii) la loro divulgazione potrebbe causare un danno grave alla persona che le ha fornite o a terzi (a tal riguardo, è generalmente riconosciuto che l’accesso a informazioni commerciali, finanziarie o strategiche è solitamente in grado di causare un danno grave); e iii) gli interessi lesi dalla divulgazione sono oggettivamente meritevoli di protezione. A tal proposito, la Comunicazione ha sottolineato come la divulgazione di informazioni relative a domande di clemenza o di settlement non siano divulgabili.

Tuttavia, le informazioni interessate potrebbero perdere il loro status di riservatezza qualora diventino “accessibili agli ambienti specializzati o siano deducibili da informazioni disponibili al pubblico”. Inoltre, la Commissione sottolinea che meri interessi di natura reputazionale – ossia qualora la parte interessata rifiuti di divulgare una certa informazione per evitare un danno alla propria reputazione – non sono meritevoli di tutela e, quindi, l’informazione in esame non può essere considerata come riservata.

Come osservato dalla Commissione, i vari ordinamenti giuridici nazionali europei, tuttavia, possono differire notevolmente tra loro per quanto concerne non solo l’accesso alle informazioni riservate ma anche la loro protezione. A tal riguardo, con la Comunicazione in esame la Commissione ha inteso non solo, come detto in precedenza, fornire un quadro comune di principi e criteri (anche pratici) a favore dei giudici nazionali ma anche sottolineare l’importanza che questi ultimi trovino il giusto equilibrio tra il diritto dei soggetti ricorrenti ad avere accesso a determinate informazioni e lo speculare diritto della parte coinvolta a vedere protette informazioni che rivestono chiara natura sensibile, la cui pubblicità indiscriminata potrebbe causare un grave nocumento agli stessi.

A tal proposito, la Comunicazione presenta una serie di strumenti a cui i vari giudici nazionali coinvolti possono ricorrere al fine di garantire un adeguato accesso ad informazioni necessarie senza tuttavia minare gli altrettanto rilevanti diritti ed interessi della controparte a mantenere confidenziali determinate informazioni particolarmente sensibili. Tali misure possono essere, ad esempio, la c.d. ‘interpolazione’ di documenti, la quale prevede l’eliminazione di parti di testo e la sostituzione con un testo non riservato; nonché la costituzione delle cc.dd. ‘cerchie di riservatezza’, tramite cui l’informazione interessata è resa disponibile esclusivamente a determinate categorie di individui.

Con la Comunicazione in esame, in conclusione, la Commissione ha voluto ulteriormente arricchire la cornice dei riferimenti normativi (in questo caso, di c.d. “soft law”) concernenti un tema che sta assumendo un’importanza sempre screscente, ossia quello del private enforcement, riconoscendo la necessità di garantire non solo i diritti dei soggetti lesi da una condotta anticoncorrenziale ad un esercizio pieno ed effettivo dei loro diritti ma anche quelli dei soggetti a cui è richiesto di divulgare determinati elementi di prova, affinché questi non ne escano eccessivamente danneggiati.

Luca Feltrin
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Dawn raids e diritti di difesa – La Corte di Giustizia stabilisce che la Commissione può fare copie di documenti al fine di esaminarli successivamente a Bruxelles

Il 16 luglio scorso, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CdG) ha respinto il ricorso di Nexans France SAS e della sua società madre Nexans SA (congiuntamente, Nexans) avverso la decisione con cui la Commissione europea (Commissione) le aveva sanzionate per oltre 70 milioni di euro per aver partecipato ad un cartello nel settore dei cavi elettrici sottomarini e sotterranei. In particolare, con la sentenza in esame, la CdG ha chiarito l’estensione dei poteri della Commissione in materia di accertamenti ai sensi dell’art. 20 del Regolamento (CE) n. 1/2003.
Nel contesto dell’indagine antitrust relativa alla citata intesa anticoncorrenziale, gli ispettori della Commissione avevano effettuato accertamenti nei locali di Nexans a Clichy (Francia), effettuando copie del disco rigido del computer di un dipendente e portandole con sé negli uffici della Commissione a Bruxelles in buste sigillate. Successivamente, gli ispettori avevano aperto nella sede della Commissione le buste sigillate, alla presenza degli avvocati di Nexans, esaminando e stampando su carta solo i documenti ritenuti pertinenti per l’indagine. Una seconda copia cartacea di tali documenti nonché un elenco degli stessi erano stati consegnati agli avvocati di Nexans. Alla fine di tali operazioni, il contenuto dei dischi rigidi dei computer sui quali gli ispettori avevano lavorato è stato cancellato.

Con il proprio ricorso, Nexans aveva quindi lamentato, inter alia, il fatto che (i) la Commissione avesse copiato i dati senza averne previamente controllato la rilevanza ai fini del procedimento; (ii) non vi fosse nessun fondamento legale che autorizzi la Commissione a proseguire l’esame dei dati a Bruxelles; e che (iii) tale attività non fosse contemplata nella decisione di ispezione.

Più nel dettaglio, con il motivo sub (i), Nexans ha sostenuto che l’art. 20, paragrafo 2, del Regolamento n.1/2003 prevede una certa cronologia delle diverse fasi di una ispezione: gli ispettori della Commissione dovrebbero prima accedere ai locali dell’impresa interessata, controllare i libri e gli altri documenti che sembrano loro pertinenti per l’indagine e, per ultimo, possono estrarre copie di tali documenti. La CdG, tuttavia, ha fornito una ricostruzione diversa del citato art. 20, paragrafo 2 chiarendo in primo luogo che, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale, l’art. 20, paragrafo 2, lettera c) del Regolamento n.1/2003, che autorizza la Commissione a “fare o ottenere sotto qualsiasi forma copie o estratti” dei documenti connessi all’azienda non poteva costituire la base giuridica delle copie effettuate dalla Commissione nei locali di Nexans. Con tale norma, infatti, il legislatore dell’Unione ha preso in considerazione gli elementi di prova che la Commissione è legittimata a procurarsi al fine di inserirli nel fascicolo. Deve quindi trattarsi di documenti coperti dall’oggetto dell’accertamento e ciò presuppone che la Commissione abbia già verificato la loro rilevanza. Tuttavia, la base giuridica per la realizzazione di siffatte copie si ritrova nell’art. 20, paragrafo 2, lettera b) del Regolamento n.1/2003, che autorizza la Commissione a controllare qualsiasi documento aziendale a prescindere dal loro supporto. Sulla base di tale norma, la Commissione può, a seconda delle circostanze, decidere se effettuare il controllo dei dati sulla base non già dell’originale ma di una copia di tali dati. In altri termini, la copia dei dati rappresenta una fase intermedia nell’ambito dell’esame dei dati. La CdG ha poi chiarito che la Commissione non incorre in alcuna violazione dei diritti di difesa delle parti nella misura in cui copia i dati senza un esame preliminare ma poi verifica che tali dati siano pertinenti per l’oggetto degli accertamenti prima di inserirli nel fascicolo.

Con il motivo sub (ii), Nexans ha sostenuto che da un’interpretazione letterale e sistematica dell’art. 20, paragrafo 2, del Regolamento n. 1/2003 risulta che esso autorizzi la Commissione a effettuare gli accertamenti soltanto presso “imprese e associazioni di imprese” ma non nei propri uffici. Nexans ha poi contestato, con il motivo sub (iii), che la Commissione aveva proceduto ad accertamenti in luoghi diversi da quelli indicati nella decisione di ispezione, la quale faceva riferimento ai “luoghi controllati” dalla ricorrente. La CdG ha esaminato congiuntamente i due motivi, sancendo che, sebbene un accertamento debba effettivamente avere inizio presso l’impresa, l’art. 20, paragrafo 2, lettera b) non stabilisce che il controllo dei documenti aziendali debba avvenire esclusivamente lì. Inoltre, la decisione di autorizzazione degli accertamenti si limitava a stabilire che questi potessero avvenire in qualsiasi luogo controllato dalle ricorrenti.

Infine, la CdG ha rilevato che la prosecuzione del controllo nei locali della Commissione non costituisce, in quanto tale, una violazione ulteriore dei diritti di difesa, e che anzi può andare incontro gli interessi delle imprese riducendo l’ingerenza dell’indagine. La CdG ha precisato, tuttavia, che la Commissione può avvalersi della possibilità di proseguire il controllo dei documenti aziendali dell’impresa nei propri locali a condizione che:

(i) lo giustifichi l’interesse dell’efficacia degli accertamenti o serve ad evitare un’ingerenza eccessiva nel funzionamento dell’impresa interessata; e

(ii) ciò non comporti una violazione supplementare dei diritti delle imprese interessate, rispetto a quanto già derivante dall’accertamento nei locali di queste ultime. In particolare, una siffatta violazione sarebbe ravvisabile quando la prosecuzione del controllo nei locali della Commissione comporti costi supplementari per l’impresa. Pertanto, quando l’indagine può dar luogo a questi costi aggiuntivi, la Commissione può procedervi solo se accetta di rimborsarli all’impresa.

In sintesi, la sentenza in esame riveste particolare interesse in quanto contribuisce a definire i confini dei poteri ispettivi della Commissione nell’ambito di un accertamento antitrust, i quali, come ricordato dalla CdG, devono sempre trovare un limite nel rispetto degli interessi e dei diritti di difesa delle imprese coinvolte.

Luigi Eduardo Bisogno
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Tutela della Concorrenza/Intese e prodotti elettronici – L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha avviato un’istruttoria nei confronti di alcune società dei gruppi Apple e Amazon.com

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha deliberato lo scorso 14 luglio 2020 l’avvio di un’istruttoria nei confronti di Apple Inc. e altre società del gruppo Apple (collettivamente, Apple) e di Amazon.com Inc. e altre società dell’omonimo gruppo (collettivamente, Amazon) per accertare la conformità col diritto della concorrenza di alcuni rapporti in Italia tra i due gruppi (congiuntamente, le Parti).

Segnatamente, l’AGCM ha avviato l’istruttoria dando seguito a una segnalazione ricevuta nel febbraio 2019 attraverso cui il denunciante, un rivenditore di prodotti di elettronica, sembrerebbe affermare l’esistenza di un accordo tra le Parti asseritamente avente l’effetto di escludere dalla piattaforma di vendite online gestita da Amazon tutti i rivenditori di prodotti a marchio “Apple” o “Beats” che non appartengono alla rete di distributori autorizzati Apple.

L’AGCM ha ipotizzato che un simile accordo potrebbe risultare idoneo a impedire ai rivenditori non autorizzati l’accesso ai servizi di intermediazione per la vendita online – di cui Amazon rappresenta il principale fornitore. Amazon, essa stessa qualificata come rivenditore autorizzato Apple, svolge l’attività di rivendita dei prodotti in parola sulla propria piattaforma online; pertanto, potrebbe conseguire a sua volta da tale accordo il vantaggio della riduzione della pressione concorrenziale rispetto alla propria attività di rivendita.

L’esistenza stessa di una rete di distribuzione selettiva è legata – per definizione – all’esistenza di limiti sulla rivendita volti a garantire che il sistema di distribuzione selettiva non venga aggirato e mantenga quelle efficienze che l’ordinamento riconosce essere meritevoli di protezione. Invero, la crescente importanza del canale di vendita online sta presentando sempre maggiori occasioni per chiarire giuridicamente come tali limitazioni  possano trovare la loro giustificazione, sia nelle ragioni alla base dei sistemi di distribuzione selettiva, sia nell’obiettiva necessità di evitare che il canale on-line si presti a facilitare il commercio di prodotti contraffatti.

Già in sede europea, nei recenti casi Pierre Fabre e Coty, tematiche simili sono state affrontate preservando la capacità dei produttori di tutelare le proprie reti di distribuzione selettiva.

Nel corso di questa istruttoria, l’AGCM sarà chiamata a valutare se eventuali limitazioni rilevate nel caso in discorso risultino giustificate, in particolare nell’ambito di un online marketplace come quello di Amazon.
Riccardo Fadiga
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Abuso di posizione dominante e misure cautelari – Il Tar Lazio rigetta l’istanza presentata da TIM per la sospensione dell’esecuzione del provvedimento adottato dall’AGCM per un illecito nel settore della rete a banda ultra-larga

Con l’ordinanza n. 4964/2020, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (TAR) ha respinto l’istanza cautelare presentata da Telecom Italia S.p.A. (TIM) relativa alla sospensione dell’esecuzione del provvedimento con il quale l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) aveva sanzionato la stessa TIM per un importo pari a € 116.099.937,60, accertando  una strategia anticoncorrenziale (ex art. 102 TFUE, che vieta l’abuso di posizione dominante) preordinata a ostacolare lo sviluppo in senso concorrenziale degli investimenti in infrastrutture di rete a banda ultra-larga (maggiori dettagli sull’istruttoria e la decisioni sono disponibili nella Newsletter del 16 marzo 2020).

Il TAR ha ritenuto che non sussistessero i presupposti del c.d. periculum in mora, ossia del rischio di un pericolo grave e irreparabile per TIM derivante dal pagamento della sanzione nell’attesa della definizione nel merito del giudizio, anche in considerazione del rapporto tra fatturato rilevante di TIM e importo sanzionatorio irrogato (potendo in ogni caso TIM richiedere la rateizzazione della sanzione).  Il TAR ha, pertanto, escluso la sospensione della sanzione (neppure a fronte del rilascio di una cauzione o garanzia, come, invece, accaduto recentemente in altri casi). Anche per tale ragione, il TAR non ha, dunque, accolto le considerazioni svolte da TIM circa la sottrazione di risorse utili allo sviluppo della rete per ottemperare al pagamento della sanzione.

Parimenti, il TAR non ha rilevato neppure la sussistenza del secondo requisito necessario per l’adozione di misure cautelari, ossia il c.d. fumus boni iuris, e ha condannato TIM al pagamento delle spese processuali nei confronti dell’AGCM e di Open Fiber S.p.A. (OF), contro-interessata nel giudizio in questione (scaturito – come menzionato – dal procedimento dell’AGCM n. A514, avviato proprio sulla base delle segnalazioni presentate da OF).

Resta quindi da vedere quale sarà la valutazione del TAR con riferimento al merito della questione.

Filippo Alberti
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Abuso di posizione dominante e questioni pregiudiziali – Il Consiglio di Stato dispone il rinvio alla Corte di Giustizia di alcune questioni inerenti al concetto di condotte abusive

Con ordinanza n. 4646/2020 (l’Ordinanza), il Consiglio di Stato (CdS) ha ritenuto, in via pregiudiziale, di rimettere alla Corte di Giustizia Europea (CdG) la definizione di alcuni quesiti attinenti all’interpretazione della nozione di condotte abusive ai sensi dell’art. 102 TFUE.

L’Ordinanza si innesta nell’ambito del giudizio (già precedentemente commentato qui: http://knowledge.freshfields.com/en/Global/r/4023/newsletter_giuridica_di_concorrenza_e_regolamentazione) successivo all’emanazione da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) del provvedimento con cui essa aveva originariamente sanzionato il gruppo Enel per oltre 93 milioni di euro (poi ridotta dal giudice di prime cure) ed il gruppo Acea per oltre 16 milioni di euro, per condotte abusive nei mercati della vendita retail di energia elettrica in cui tali operatori, offrendo il servizio pubblico di maggior tutela (come noto, istituito in origine con finalità transitorie e temporanee e ciclicamente prorogato nel corso degli anni), avrebbero indotto i consumatori ad aderire alle loro offerte (e non a quelle di altri operatori) destinate al mercato libero.

Dopo aver ripercorso gli elementi costituenti la nozione di condotta abusiva, il CdS ha illustrato le ragioni per cui ha ritenuto di formulare i quesiti da sottoporre al vaglio della CdG; essenzialmente, le questioni ruotano attorno, da un lato, al concetto di ‘sfruttamento abusivo’, i.e. se debba essere considerato tale solo in funzione del suo potenziale effetto restrittivo o se debba essere anche connotato da un elemento di antigiuridicità; e, dall’altro, sull’opportunità di rilevare o meno l’illeceità della condotta abusiva ex se (come avviene per le intese, trattandosi di un’infrazione per oggetto).

Più precisamente, i quesiti trasmessi dal Cds alla CdG sono i seguenti:

1) se le condotte che costituiscono lo sfruttamento abusivo di posizione dominate possano essere di per sé del tutto lecite ed essere qualificate “abusive” unicamente in ragione dell’effetto (potenzialmente) restrittivo ingenerato nel mercato di riferimento; oppure se le stesse debbano essere contrassegnate anche da una specifica componente di antigiuridicità, costituita dal ricorso a «metodi (o mezzi) concorrenziali diversi» da quelli «normali»; in quest’ultimo caso, sulla base di quali criteri si possa stabilire il confine tra la concorrenza «normale» e quella «falsata»;

2) se la funzione dell’abuso sia di massimizzare il benessere dei consumatori, di cui il giudice debba misurare l’avvenuta (o il pericolo di) diminuzione; oppure se l’illecito concorrenziale abbia il compito di preservare di per sé la struttura concorrenziale del mercato, al fine di scongiurare la creazione di aggregazioni di potere economico ritenute comunque dannose per la collettività;

3) se, in caso di abuso di posizione dominante consistito nel tentare di impedire che permanga il livello di concorrenza ancora esistente o il suo sviluppo, l’impresa dominante sia comunque ammessa a provare che – nonostante l’astratta idoneità dell’effetto restrittivo – la condotta è risultata priva di concreta offensività; se, in caso di risposta positiva, ai fini della valutazione in ordine alla sussistenza di un abuso escludente atipico, l’art. 102 TFUE vada interpretato nel senso di ritenere sussistente in capo all’Autorità l’obbligo di esaminare in maniera puntuale le analisi economiche prodotte dalla parte sulla concreta capacità della condotta oggetto di istruttoria di escludere dal mercato i propri concorrenti;

4) se l’abuso di posizione dominante debba valutarsi soltanto per i suoi effetti (anche soltanto potenziali) sul mercato, senza alcun riguardo al movente soggettivo dell’agente; oppure se la dimostrazione dell’intento restrittivo costituisca un parametro utilizzabile (anche in via esclusiva) per valutare l’abusività del comportamento dell’impresa dominante; oppure ancora se tale dimostrazione dell’elemento soggettivo valga soltanto a ribaltare l’onere della prova in capo all’impresa dominante (la quale sarebbe onerata, a questo punto, di fornire la prova che l’effetto escludente è mancato); e, infine,

5) se, in ipotesi di posizione dominante riferita una pluralità di imprese appartenenti al medesimo gruppo societario, l’appartenenza al predetto gruppo sia sufficiente per presumere che anche le imprese che non abbiano posto in essere la condotta abusiva abbiano concorso nell’illecito  oppure se (al pari di quanto accade per il divieto di intese) occorra comunque fornire la prova, anche indiretta, di una situazione concreta di coordinamento e strumentalità tra le varie imprese del gruppo in posizione dominante, in particolare al fine dimostrare il coinvolgimento della casa madre.
Sarà davvero interessante vedere se e come, prima l’Avvocato generale, e poi la CdG, vogliano occuparsi nel dettaglio ed in profondità di tali questioni, trattandosi in buona parte di tematiche di assai ampio respiro che chiamano in causa i connotati fondamentali e la natura stessa della fattispecie dell’abuso di posizione dominante, ed invero dell’intero diritto antitrust comunitario.

Filippo Alberti
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