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Newsletter

Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Impegni antitrust e giustizia comunitaria – La Corte di Giustizia annulla la decisione della Commissione con cui Paramount si era impegnata ad eliminare le clausole di esclusiva territoriale contenute nei suoi accordi di licenza

Con la sentenza pubblicata lo scorso 9 dicembre, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha annullato la pronuncia del Tribunale dell’Unione europea (il Tribunale) con la quale quest’ultimo aveva respinto il ricorso di Groupe Canal + S.A. (Groupe Canal +) diretto all’annullamento di una decisione della Commissione europea (la Commissione). Mediante tale decisione, la Commissione aveva in precedenza reso obbligatori gli impegni offerti da Paramount Pictures Ltd e la sua società madre Viacom Inc. (insieme, Paramount) nell’ambito dei loro accordi di licenza con Sky UK Ltd e Sky plc (insieme, Sky).

Il 13 gennaio 2014, la Commissione europea aveva avviato un’indagine su possibili restrizioni che ostacolavano la fornitura di servizi televisivi a pagamento nell’ambito degli accordi di licenza fra sei case di produzione cinematografica americane e le principali emittenti televisive a pagamento dell'Unione europea. Ad esito di tale indagine, la Commissione aveva inviato a Paramount una comunicazione degli addebiti relativa a talune clausole negli accordi di licenza con operatori televisivi con le quali venivano concesse a questi ultimi delle esclusive nazionali (mediante pratiche di c.d. geo-blocking). Tali clausole venivano considerate preliminarmente, durante l’indagine, come restrizioni della concorrenza “per oggetto” (per maggiori dettagli, si veda la Newsletter del 2 maggio 2016).

Paramount si era quindi impegnata a non applicare e a non esigere il rispetto di tali clausole di esclusiva, evitando così la prosecuzione dell’indagine avviata in tale proposito dalla Commissione, che aveva pertanto concluso il procedimento senza accertare l’esistenza dell’infrazione.

Nel contesto dell’attuazione di tali impegni, Paramount aveva quindi notificato a Groupe Canal + tali impegni e le loro implicazioni, in particolare la sua intenzione di non vigilare più sul rispetto dell’esclusiva territoriale assoluta concessa a quest’ultimo sul mercato francese. Ritenendo che tali impegni, assunti nell’ambito di un procedimento che coinvolgeva soltanto la Commissione e Paramount, non gli fossero opponibili, Groupe Canal + aveva adito il Tribunale, il quale ha tuttavia respinto il suo ricorso. Contro la pronuncia del Tribunale, l’appello di Gruppo Canal + ha portato al giudizio dinanzi alla CGUE qui in esame.

Con la sentenza sopra richiamata, la CGUE ha accolto, in particolare, il quarto motivo di ricorso di Canal +, dichiarando la sentenza del Tribunale viziata da un errore di diritto quanto alla valutazione della proporzionalità della decisione controversa per quanto riguarda il pregiudizio agli interessi dei terzi.

La CGUE ha osservato, innanzitutto, che il principio di proporzionalità richiede che la Commissione verifichi l’idoneità degli impegni offerti a rispondere alle preoccupazioni concorrenziali anche con riguardo alla loro incidenza sugli interessi dei terzi, in modo che i diritti di questi ultimi non siano svuotati di contenuto. Come peraltro osservato dallo stesso Tribunale, il fatto che la Commissione renda obbligatorio l’impegno di un operatore consistente di fatto nel disapplicare talune clausole nei confronti della sua controparte contrattuale, come Groupe Canal +, senza che tale controparte contrattuale vi abbia acconsentito, costituisce un’ingerenza nella libertà contrattuale che va oltre le disposizioni dell’articolo 9 del regolamento n. 1/2003.

La CGUE ha quindi ravvisato la non proporzionalità di tale ingerenza nel fatto che, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale, tali controparti contrattuali non potevano rivolgersi ai giudici civili nazionali al fine di far rispettare i loro diritti contrattuali. Infatti, una decisione di un giudice nazionale che obbliga un’impresa che abbia assunto impegni resi obbligatori in forza di una decisione adottata ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, del regolamento n. 1/2003 a contravvenire a tali impegni, sarebbe incompatibile con l’articolo 16 del regolamento n.1/2003, che vieta a tali giudici di prendere decisioni che siano in contrasto con una precedente decisione della Commissione.

Di conseguenza, accogliendo le conclusioni dell'impugnazione proposta da Groupe Canal +, la CGUE ha annullato la sentenza impugnata, nonché, statuendo definitivamente sulla controversia, la decisione controversa.

La sentenza della CGUE ribadisce l’obbligo per la Commissione di considerare il potenziale pregiudizio agli interessi di terzi quando adotta decisioni sugli impegni (sul punto si veda la sentenza del 29 giugno 2010, Commissione/Alrosa, C‑441/07 P). Nonostante la sentenza non chiarisca espressamente quando tale pregiudizio possa essere considerato sufficientemente sproporzionato da giustificare l’annullamento di una decisione di impegni, essa attribuirà inevitabilmente alle terze parti direttamente interessate una maggiore capacità di influenzare il pacchetto di impegni considerato dalla Commissione ovvero da una autorità nazionale in procedimenti futuri.

Luigi Eduardo Bisogno
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Aiuti di Stato e settore aeroportuale – La Corte di Giustizia rigetta l’appello del Comune di Milano: confermata la decisione della Commissione europea che imponeva il recupero degli aiuti in favore di SEA

Con la sentenza del 10 dicembre 2020 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha rigettato l’appello proposto dal Comune di Milano (il Comune) avverso la sentenza del Tribunale dell’Unione Europea (il Tribunale), che in primo grado aveva già confermato la decisione (la Decisione) della Commissione Europea (la Commissione) di accertamento di aiuti di Stato incompatibili con il mercato interno in relazione alle sovvenzioni sotto forma di aumenti di capitale erogati dalla società SEA S.p.A. (SEA) alla sua controllata SEA Handling S.p.A. (SEA Handling) (circa 360 milioni di euro nel periodo 2002-2010).

La Decisione riguardava il periodo 2002-2010 (Periodo Rilevante) durante il quale il capitale sociale di SEA, società che gestisce gli aeroporti di Milano Linate e Milano Malpensa, era pressoché interamente detenuto dal Comune di Milano (84,56%) e dalla Provincia di Milano (14,56%). Nel 2002 SEA aveva costituito SEA Handling, incaricandola di fornire i servizi di assistenza a terra nei suddetti aeroporti. Nel marzo dello stesso anno, SEA aveva concluso un accordo (l’Accordo) con alcune organizzazioni sindacali nel quale si legge che “[l]’amministrazione del Comune di Milano […] conferma che […] la quota di maggioranza della società di handling rimarrà a SEA per almeno cinque anni; […] l’equilibrio costi/ricavi e il quadro economico in generale saranno sostenuti da SEA ed eventuali partner mantenendo invariate le sue capacità gestionali, migliorando ulteriormente e sensibilmente le sue possibilità di ben concorrere sui mercati nazionali ed internazionali […]”. Dopo la conclusione dell’Accordo, durante il Periodo Rilevante, SEA aveva sovvenzionato SEA Handling con apporti di capitale frazionati per un importo complessivo di 360 milioni di euro (le Misure).

Come detto, la Decisione era dunque stata confermata dalla sentenza del Tribunale, nonostante il ricorso del Comune che aveva contestato, anzitutto, l’utilizzo di risorse statali e l’imputabilità delle stesse, mediante le Misure, al Comune (quindi allo Stato italiano).

In merito alla qualificazione come risorse statali delle risorse adoperate da SEA per finanziare le Misure, la CGUE, richiamando la propria giurisprudenza, ha ora ribadito che nell’art. 107 (1) TFUE sono ricompresi “tutti gli strumenti pecuniari che le autorità pubbliche possono effettivamente utilizzare per sostenere imprese, […]. Di conseguenza, anche se le somme corrispondenti alla misura in questione non sono permanentemente in possesso dell’Erario, il fatto che restino costantemente sotto controllo pubblico, […], è sufficiente perché siano qualificate come risorse statali.” Nel caso delle imprese pubbliche, poi “lo Stato è in grado, con l’esercizio della sua influenza dominante su tali imprese pubbliche, di orientare l’utilizzo delle loro risorse […]”.

La CGUE ha dunque considerato corretta la conclusione del Tribunale. Esso, infatti, considerando che il capitale di SEA era quasi interamente detenuto da autorità pubbliche e che il Comune designava i membri del CdA e del Collegio sindacale di SEA, aveva confermato che le Misure dovevano considerarsi come risorse statali.

In merito, invece, al motivo presentato dal Comune sull’imputabilità delle Misure, la CGUE ha chiarito che, anche laddove lo Stato possa esercitare su un’impresa un’influenza dominante, l’esercizio effettivo della stessa nel caso concreto non può essere automaticamente presunto. Ciò non implica, tuttavia, che sia necessario dimostrare, svolgendo un’indagine, che le autorità pubbliche abbiano concretamente incitato l’impresa pubblica ad adottare una misura di aiuto, bensì “l’imputabilità allo Stato di una misura di aiuto adottata da un’impresa pubblica può essere dedotta da un insieme di indizi risultanti dalle circostanze del caso di specie e dal contesto nel quale detta misura è stata adottata”. In particolare “assume rilevanza qualunque indizio che suggerisca, nel caso concreto, per un verso, il coinvolgimento delle autorità pubbliche ovvero l’improbabilità di un’assenza di coinvolgimento nell’adozione di una misura, tenuto conto anche dell’ampiezza di tale misura, del suo contenuto o delle condizioni che essa comporta, oppure, per altro verso, la mancanza di coinvolgimento delle suddette autorità nell’adozione della menzionata misura”.

Nel caso di specie il Tribunale ha verificato l’esistenza di indizi positivi indicativi, in concreto, di un coinvolgimento del Comune nell’adozione delle Misure. Tali indizi riguardavano l’Accordo, dal quale poteva evincersi “un obbligo chiaro e preciso per la SEA di ripianare, quantomeno per un periodo di cinque anni, le perdite della SEA Handling”, e la cui sottoscrizione da parte del Comune è stata considerata come “suo avallo, anche nella sua qualità di azionista di maggioranza della SEA”. Da ciò poteva dedursi che “la partecipazione attiva del Comune di Milano alla negoziazione e alla conclusione di detto accordo costituiva un elemento chiave di prova del coinvolgimento delle autorità italiane nella concessione delle misure in questione”.

Roberta Laghi
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Aiuti di Stato e GBER - La Commissione Europea ha pubblicato uno studio conoscitivo sull’attuazione dei requisiti di valutazione previsti dal Regolamento generale di esenzione di blocco in materia di aiuti di Stato e dalle relative linee guida della Commissione

Lo scorso 10 dicembre 2020, la Commissione Europea (la Commissione), in collaborazione con Ismeri Europa, ha pubblicato uno studio conoscitivo, dal titolo “Fact-finding study on the implementation of the evaluation requirement as foreseen by the GBER and relevant guidelines” (lo Studio), relativo all’attuazione del requisito di valutazione degli aiuti di Stato previsto dal Regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione del 17 giugno 2014, che dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato (c.d. General block exemption Regulation - GBER) e delle relative linee guida della Commissione. Lo Studio in oggetto fa seguito ad una analoga pubblicazione dello scorso 26 novembre 2020 che riguardava invece il requisito della trasparenza previsto dalla GBER.

Nello specifico, lo Studio è volto ad indagare l’efficienza dell’attuazione dei requisiti di valutazione previsti dalla GBER dal punto di vista legale, organizzativo e tecnico. A tal fine, l’analisi è stata svolta lungo due direttive principali. La prima (c.d. Task 1) è consistita nell’analisi delle norme e delle disposizioni nazionali degli Stati membri concernenti la valutazione dei regimi di aiuti di Stato, con particolare riferimento a tre aspetti: (i) l’eventuale aggravio amministrativo derivante da tali valutazioni, (ii) le tipologie di valutazione adottate dai singoli Stati membri e la sofisticatezza delle stesse e (iii) la propensione alla valutazione degli Stati membri. La seconda direttiva (c.d. Task 2) dello studio si è concentrata invece sull’analisi del modo in cui la valutazione dei regimi di aiuto viene concretamente effettuata dagli Stati membri.

Lo Studio ha rivelato che gli attuali requisiti per la valutazione dei regimi di aiuti di Stato dell’UE funzionano in modo piuttosto soddisfacente e non necessitano di cambiamenti drastici. In particolare, è stata verificata la coerenza dei procedimenti di valutazione con gli obiettivi principali posti dalla normativa, l’adeguatezza dell’impegno profuso dagli Stati Membri nel compiere le valutazioni e la loro generale buona capacità di attuare piani e valutazioni efficaci.

Pertanto, nella parte conclusiva, lo Studio si è limitato a proporre alcuni possibili miglioramenti per rafforzare il sistema di valutazione dei regimi di aiuti di Stato, senza tuttavia suggerire riforme drastiche della normativa attualmente vigente.

Nello specifico, le conclusioni dello Studio evidenziano, inter alia, che potrebbe essere opportuno: (i) estendere la portata e lo scopo del requisito di valutazione, al fine di ricomprendere maggiori tipologie di aiuti di Stato; (ii) aggiornare le “linee guida della Commissione sulle metodologie comuni di valutazione” per introdurre nuove metodologie alternative, pur mantenendo l’attuale flessibilità, nonché investire in miglioramenti metodologici e nella disponibilità dei dati;  (iii) aumentare il coordinamento tra la Commissione e le diverse amministrazioni responsabili delle valutazioni nei singoli Stati membri; (iv) definire criteri di riferimento per l’utilizzo delle valutazioni, segnalare i principali risultati e dimostrarne l’utilizzo nelle relazioni di monitoraggio; (v) includere maggiori dettagli nei piani di valutazione, relativamente ai dati e ai metodi utilizzati, oltre alla conduzione di valutazioni paritetiche per la validazione dei risultati; (vi) promuovere lo scambio e la diffusione delle lezioni apprese.

Resta quindi ora da vedere se tali proposte si tradurranno in modifiche normative al regolamento in questione (GBER).

Luca Casiraghi
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Tutela del consumatore / Pratiche commerciali scorrette e stampanti – L’AGCM sanziona HP per non aver sufficientemente informato i consumatori della carenza di compatibilità delle stampanti a proprio marchio con determinate cartucce di inchiostro

Il 17 novembre scorso, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha irrogato due sanzioni, di importo complessivo di 10 milioni di Euro, nei confronti di HP Inc. e HP Italy S.r.l. (congiuntamente, HP), per avere attuato altrettante separate pratiche commerciali scorrette (PCS).

In particolare, HP, nell’ambito della propria attività di vendita di stampanti e di ricariche di inchiostro per stampanti (c.d. “cartucce”), fornisce le proprie stampanti di un sistema di riconoscimento della cartuccia, che permette di identificare eventuali cartucce non originali (i.e. non a marchio HP). Attraverso questo meccanismo, HP avrebbe messo in atto le due separate PCS.

In primo luogo, identificata una cartuccia non originale, le stampanti esaminate sono programmate per impedire od ostacolare il processo di stampa, eventualmente anche avvisando l’utente di difetti di conformità della cartuccia che secondo l’AGCM non sono realmente esistenti, spingendo l’utente ad impiegare solo cartucce a marchio HP senza che, apparentemente, ciò importi reali vantaggi in termini di prestazioni o compatibilità. Relativamente a tale meccanismo, l’AGCM ha contestato che l’utente non sarebbe messo nelle condizioni di conoscere tali limiti alla compatibilità con cartucce non originali al momento dell’acquisto della stampante, potenzialmente aspettandosi di acquistare una stampante compatibile con una maggiore gamma di cartucce. Di conseguenza, l’AGCM ha qualificato come pratica commerciale ingannevole la carenza informativa nei confronti degli utenti.

In secondo luogo, le stampanti esaminate identificano le cartucce utilizzate nella stampante e ne registrano i dati, permettendo ai servizi di assistenza HP di negare sia l’assistenza prevista dalla garanzia commerciale del produttore, sia l’assistenza richiesta dal venditore per fornire la garanzia legale di conformità nel caso in cui siano state utilizzate cartucce non originali. L’AGCM ha qualificato tale condotta commerciale come aggressiva.

Oltre ad irrogare una sanzione pari a cinque milioni di Euro per ciascuna di queste condotte, corrispondente dunque al massimo legale previsto per questo tipo di infrazione, l’AGCM ha disposto la pubblicazione di diversi messaggi che contrastino l’effetto ingannevole sui consumatori delle pratiche in discorso, tra cui anche alcuni messaggi che dovranno accompagnare le stampanti a marchio HP che chiariscano l’assenza di compatibilità con determinate cartucce.

Diversi profili del provvedimento dell’AGCM risultano di interesse.

In primo luogo, risulta significativa l’attenzione dedicata alla raccolta dei dati relativi al funzionamento delle stampanti (che fanno riferimento, in particolare, al tipo di cartuccia utilizzata), e al loro inserimento in un archivio che l’AGCM definisce “di Big Data”. Tale pratica è esaminata sotto il profilo dell’ingannevolezza verso i consumatori nella misura in cui questi ultimi non sono adeguatamente informati delle finalità della raccolta dei dati, ma allo stesso tempo conferma la particolare attenzione dell’AGCM rispetto alla costruzione di database di dati commercialmente sensibili.

In secondo luogo, non può non essere notato il fatto che l’AGCM abbia deciso di valutare le condotte in esame in un procedimento per PCS, senza occuparsi quindi degli eventuali risvolti concorrenziali delle pratiche descritte.

Riccardo Fadiga
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Legal News / Diritto della concorrenza e piattaforme digitali – Con un’azione congiunta con 48 Stati americani, la Federal Trade Commission accusa Facebook di condotta anticoncorrenziale e chiede lo scorporo di WhatsApp ed Instagram dal gruppo

Con un comunicato stampa pubblicato sul proprio sito l’11 dicembre scorso, la Federal Trade Commission (FTC) ha reso noto di aver notificato – al termine di una lunga indagine condotta congiuntamente dai Procuratori Generali di 46 Stati membri degli Stati Uniti – un atto di accusa (l’Accusa) alla società Facebook Inc. (Facebook), contestando a quest’ultima di aver adottato una strategia volta a garantire il permanere in maniera illegale del proprio potere di mercato nel mercato dei social network, attraverso l’adozione di condotte contrarie al diritto della concorrenza.

Come espressamente riportato nell’Accusa, ad avviso della FTC Facebook ha acquisito e consolidato la sua posizione di mercato attraverso una strategia volta all’eliminazione selettiva – avvenuta nel corso degli anni – delle varie minacce concorrenziali attraverso l’imposizione di condizioni restrittive agli sviluppatori di software presenti sul mercato, nonché tramite acquisizioni mirate (c.d. ‘killing acquisition’) di nuove imprese potenzialmente idonee a incidere sulla posizione di Facebook . Gli esempi più rilevanti al grande pubblico di quest’ultima strategia ricomprendono i) l’acquisizione nel 2012 dell’allora impresa emergente Instagram LLC (Instagram), società sviluppatrice dell’omonimo social network volto a permette ai suoi utenti di scattare foto, applicarvi filtri e condividerle online; nonché ii) l’acquisizione nel 2014 di WhatsApp Inc. (WhatsApp), la società proprietaria della nota applicazione informatica di messaggistica istantanea creata nel 2009. In particolare:

i) secondo le risultanze dell’attività investigativa effettuata dalla FTC, Instagram – al momento dell’acquisizione – era una start-up che non solo godeva di ottima salute ma che stava sperimentando una crescita rapida, e che stava emergendo in un momento critico per la concorrenza nel mercato dei social network personali, in cui gli utenti stavano cominciando la propria ‘migrazione’ dai desktop agli smartphone e, pertanto, in un momento in cui la condivisione delle foto stava acquisendo una popolarità crescente. L’Accusa della FTC sostiene, a tal proposito, che i dirigenti di Facebook (tra cui lo stesso CEO Mark Zuckerberg) sono stati in grado di riconoscere velocemente l’importanza e l’innovazione che Instagram rappresentava sul mercato, nonché la potenziale minaccia al potere monopolistico di Facebook. Alla luce di tali elementi, pertanto, Facebook ha optato nell’aprile del 2012 per l’acquisizione – per un totale di $1 miliardo – di Instagram al fine, così, di neutralizzare preventivamente la suddetta minaccia;

ii) come indicato dalla FTC, Facebook – più o meno nello stesso periodo dell’acquisizione di WhatsApp – aveva anche capito che anche le applicazioni di messaggistica mobile cc.dd. ‘over-the-top’ potevano rappresentare una seria minaccia al potere di mercato di Facebook. L’Accusa sostiene, a tal riguardo, che WhatsApp era già emersa come chiaro leader globale della messaggistica mobile nel 2012. Anche in tal caso, secondo la contestazione della FTC, Facebook ha preferito acquistare una potenziale minaccia invece che competere con essa. L’acquisizione nel 2014 di WhatsApp da parte di Facebook sarebbe stata pertanto volta a neutralizzare la prospettiva che WhatsApp potesse minacciare il monopolio di Facebook nel mercato dei social network.

Per quanto concerne, infine, l’imposizione di condizioni anticoncorrenziali all’accesso di sviluppatori di software, secondo quanto sostenuto nell’Accusa Facebook avrebbe reso disponibili le interfacce di programmazione delle applicazioni (API) chiave alle applicazioni di terzi solo a condizione che si astenessero dallo sviluppare funzionalità concorrenti e dal connettersi o promuovere servizi di social networking ulteriori rispetto a Facebook stessa.

Tenendo conto di tali elementi, il Presidente del Boureau of Competition della FTC, Ian Conner – dopo aver sottolineato come il ruolo dei social network sia divenuto, oggigiorno, sempre più rilevante (se non addirittura centrale) nella vita del singolo cittadino – ha riconosciuto, pertanto, la necessità di “di annullare gli effetti della condotta anticoncorrenziale di Facebook e ripristinare la concorrenza” sul mercato dei social network, andando così ad eliminare la descritta situazione di monopolio.

Al fine di raggiungere tale obiettivo, la FTC ha richiesto alla Corte Distrettuale del Distretto della Columbia di adottare una ingiunzione permanente volta inter alia a: (a) imporre a Facebook la cessione sia di Instagram, sia di WhatsApp; (b) proibire l’imposizione di condizioni anticoncorrenziali agli sviluppatori di software; nonché (c) obbligare Facebook a richiedere un’approvazione preventiva in relazione alle future operazioni di acquisizione che questa intende eseguire (anche al di là dei consueti obblighi di notifica ai sensi del c.d. merger control).

Il caso in esame, oltre alla inevitabile rilevanza sia presso il grande pubblico (per il tema “politico” della potenziale lotta alle “big tech”) sia nella comunità antitrust (tornata ad interrogarsi sui paradigmi fondamentali della normativa), risulta di particolare interesse per le numerose questioni trattate e per le richieste decisamente invasive avanzate dalla FTC. Al riguardo non si può non notare che le conclusioni dell’FTC beneficiano del c.d. “senno di poi”, ossia procedono a valutare ex post la condotta di Facebook ma, in qualche modo con quella che appare prima facie una contraddizione logica, sostenendo l’accusa da una prospettiva ex ante. C’è quindi grandissima curiosità per il prosieguo del procedimento dinnanzi alla Corte Distrettuale del Distretto della Columbia, al fine di vedere se il giudice adito accoglierà, anche solo in parte, le richieste della FTC.

Luca Feltrin
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Diritto UE e piattaforme online – La Commissione europea pubblica i propri orientamenti sul Regolamento Platform-to-business 

Lo scorso 7 dicembre, la Commissione europea (la Commissione) ha pubblicato gli attesi Orientamenti sulla trasparenza del posizionamento a norma del regolamento (UE) 2019/1150 del Parlamento europeo e del Consiglio (gli Orientamenti). Gli Orientamenti mirano ad agevolare l’interpretazione e l’applicazione dell’articolo 5 del regolamento (UE) 2019/1150 del 20 giugno 2019 (il Regolamento).

Come noto, il Regolamento ha introdotto nuove regole applicabili ai servizi di intermediazione online e ai motori di ricerca online: l’obiettivo del legislatore UE è quello di incrementare la trasparenza nelle relazioni commerciali tra servizi di intermediazione/motori di ricerca online ed i relativi utenti commerciali. Il Regolamento si applica dal 12 luglio 2020. Poco prima di questa data, il 9 luglio 2020, la Commissione aveva pubblicato un Q&A per fornire alcuni chiarimenti preliminari sulle previsioni del Regolamento. Il Q&A, in applicazione dell’articolo 5 (7) del Regolamento, rinviava ad un momento successivo l’adozione di orientamenti specifici per l’articolo 5. La pubblicazione degli Orientamenti, ripetutamente rinviata a causa dell’emergenza COVID-19, completa il pacchetto di previsioni attuative del Regolamento (per una overview del Regolamento, si veda anche la precedente newsletter pubblicata dal nostro Team).

Come accennato, gli Orientamenti hanno ad oggetto il solo articolo 5 del Regolamento in materia di posizionamento (il c.d. ranking), che ne costituisce una delle previsioni più innovative e controverse. In particolare, l’articolo 5 comporta l’obbligo: (i) per i prestatori di servizi online, di chiarire i principali parametri che determinano il posizionamento di beni e servizi offerti; e (ii) per i fornitori di motori di ricerca online, di fornire le medesime informazioni con riferimento ai risultati della ricerca. La ratio dell’articolo 5 è esplicitata al paragrafo 12 degli Orientamenti (che richiamano i considerando 24 e 26 del Regolamento), laddove si prevede che “il posizionamento dei beni e dei servizi da parte del fornitore ha un impatto importante sulla scelta del consumatore e, di conseguenza, sul successo commerciale degli utenti che offrono tali beni e servizi ai consumatori”. Dal punto di vista del consumatore, “la qualità dei risultati di ricerca può differenziare i servizi e, di conseguenza, il funzionamento dettagliato dei metodi di posizionamento può costituire un vantaggio competitivo”.

Gli Orientamenti sono piuttosto dettagliati. Se ne riportano di seguito i punti principali.

Innanzitutto, i paragrafi 22-25 degli Orientamenti chiariscono il livello di dettaglio delle informazioni sui parametri di posizionamento. Queste ultime devono riguardare non solo i parametri principali di posizionamento ma anche i motivi dell’importanza relativa di tali parametri principali rispetto ad altri.

In secondo luogo, i paragrafi 39-47 degli Orientamenti chiariscono i criteri per determinare quali parametri debbano essere considerati “principali” (e dunque soggetti agli obblighi informativi). Sotto questo profilo, sostanzialmente gli Orientamenti richiedono un bilanciamento tra “gli elementi che hanno ispirato l’elaborazione iniziale dell’algoritmo, ad esempio il desiderio di permettere ai consumatori di trovare beni o servizi locali, economici, di alta qualità, ecc.” e “le conoscenze più utili per gli utenti interessati”. I paragrafi 49-75 degli Orientamenti contengono alcune considerazioni di cui tener conto nel condurre la valutazione necessaria per identificare i principali parametri di posizionamento. Tra di essi, si segnala la “personalizzazione” (parr. 49-53, i.e. la differenziazione nel posizionamento dei risultati sulla base di caratteristiche specifiche dell’utente, caso in cui gli Orientamenti richiedono di esplicitare “i parametri utilizzati per personalizzare i risultati [che si applicano] allo stesso modo a tutte le offerte di beni o servizi pubblicate dagli utenti sui servizi interessati”); il “comportamento e le intenzioni di ricerca dei consumatori” (par. 54) e la “cronologia dell’utente” (par. 55).

In terzo luogo, gli Orientamenti affrontano l’ipotesi di cui all’articolo 5, paragrafo 3 del Regolamento, che impone la descrizione della possibilità per gli utenti di influire sul posizionamento a fronte di un corrispettivo versato direttamente o indirettamente, laddove tale possibilità costituisca un “parametro principale” (parr. 85-92). A questo riguardo, gli Orientamenti chiariscono che il termine “corrispettivo” vada inteso in senso lato, come riferito sia ai pagamenti effettuati allo scopo principale o unico di migliorare il posizionamento, sia ai corrispettivi indiretti sotto forma di accettazione, da parte di un utente commerciale, di obblighi aggiuntivi di qualsiasi genere. Il livello di dettaglio fornito nella descrizione “dovrebbe andare oltre la semplice enumerazione dei parametri principali”; in particolare, le descrizioni dovrebbero “includere quanti più dettagli siano necessari e opportuni per la loro base di utenti professionale specifica, senza sovraccaricarla di informazioni o confonderla”. Gli Orientamenti contengono infine due allegati, rispettivamente “Esempi illustrativi di parametri di posizionamento” ed “Esempi illustrativi di corrispettivi diretti e indiretti”.

In conclusione, gli Orientamenti costituiscono senz’altro una apprezzabile fonte di chiarimenti per gli operatori del mercato. Il Regolamento costituisce una parte importante della strategia della Commissione per la regolamentazione delle piattaforme online e alcune delle previsioni ivi contenute avevano destato dubbi in fase attuativa. Da questo punto di vista, i numerosi esempi pratici e sezioni dedicate al grado di dettaglio degli obblighi informativi sembrano costituire una utile guida a fini di compliance.

Luca Villani
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Class Action e accesso civico generalizzato – Il TAR respinge il ricorso di Compass avverso un accesso civico generalizzato concesso dall’AGCM ad un’associazione a tutela dei consumatori

Con sentenza n. 13081 del 7 dicembre 2020 (la Sentenza), il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (TAR) ha rigettato interamente il ricorso proposto da Compass Banca S.p.A. (Compass) contro l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) per l’annullamento del provvedimento con cui l’AGCM aveva accolto l’istanza di accesso civico generalizzato presentata da Class Action Italia.

Compass, con provvedimento dell’AGCM del 27 novembre 2019, era stata sanzionata per aver posto in essere una pratica commerciale scorretta. Successivamente, nel luglio 2020, era pervenuta all’AGCM un’istanza di accesso civico generalizzato con cui Class Action Italia aveva chiesto di poter accedere a specifici documenti menzionati nel provvedimento sanzionatorio, nonché le informazioni e i reclami riferiti alla pratica scorretta addebitata a Compass.

Pur avendo Compass manifestato la propria opposizione, l’AGCM comunica alla stessa che l’istanza di accesso era stata accolta, limitatamente alle informazioni ed ai dati oggetto di richiesta per i quali non sussistevano esigenze di riservatezza connesse alla tutela di interessi economici e commerciali di Compass.

Tale provvedimento di accesso veniva impugnato da Compass, secondo la quale l’associazione Class Action Italia sarebbe stata inesistente, in quanto non figurante nell’elenco delle associazioni dei consumatori, e si sarebbe ridotta a un mero sito internet promosso da tre avvocati che pubblicizzavano i propri servizi legali proponendo ai consumatori azioni di classe collettive, previo conferimento di un mandato agli avvocati in questione. Pertanto, nel ricorso in oggetto Compass contestava all’AGCM di aver commesso una “grave negligenza” autorizzando l’accesso ai documenti richiesti, lamentando che non era stato preventivamente verificato se l’associazione fosse esistente o meno e che non ci si era avveduti della natura esplorativa e della finalità meramente privata dell’istanza.

Con la Sentenza, il TAR rigetta l’intero ricorso. Secondo il giudice amministrativo, infatti, le norme relative all’accesso civico generalizzato (introdotto dall’art. 5, comma 2, del decreto legislativo n. 33/2013) non recano prescrizioni puntuali quanto alle ipotesi di sottrazione all’accesso agli atti, ma permettono – sempre nell’osservanza delle esigenze di riservatezza (rispettate, nel caso di specie, dall’AGCM) – a chiunque di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni. Pertanto, nessuna indagine era esigibile dall’AGCM sulle eventuali ragioni private sottese all’accesso, come quella relativa al procacciamento di clientela per eventuali class action e, inoltre, l’AGCM non avrebbe potuto rifiutare l’accesso sulla base di tale motivazione. Come sopra ribadito, infatti, le norme relative all’accesso generalizzato non contemplano limiti di tal genere.

La Sentenza risulta di notevole interesse, data la conferma circa l’estensione della platea di soggetti aventi diritto all’accesso agli atti dei procedimenti antitrust (non limitata alle parti indagate, a segnalanti e ad altri partecipanti allo stesso). Ciò, principalmente alla luce della recente crescita anche in Italia delle azioni collettive di classe, le quali potrebbero trovare un contesto normativo e istituzionale di ancora maggiore favore non solo quando, il 19 maggio 2021, entrerà in vigore la normativa sulla nuova “class action” (salvo ulteriori proroghe) ma anche a seguito della futura attuazione della Direttiva europea sul collective redress approvata a fine Novembre 2020.

Mila Filomena Crispino
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