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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza – Europa/ Commissione europea e foreign subsidies – Il progetto di regolamento della Commissione sui foreign subsidies fa un passo avanti verso la sua adozione

Lo scorso 26 aprile, il Committee on International Trade del Parlamento europeo (il Parlamento) ha approvato con emendamenti la proposta di Regolamento della Commissione europea (la Commissione) sui foreign subsidies aventi un effetto distorsivo sul mercato interno (la Proposta di Regolamento). La discussione e successiva votazione in seno al Parlamento sono calendarizzate per la settimana prossima.

Come noto, con la Proposta di Regolamento presentata nel maggio scorso, la Commissione mira a colmare quella che da molti è considerata una lacuna nell’attuale disciplina riguardante gli aiuti di Stato, gli appalti pubblici e la concorrenza: gli strumenti esistenti non si applicano infatti alle sovvenzioni estere che conferiscono ai beneficiari un vantaggio indebito quando acquistano imprese attive nell’UE, partecipano ad appalti pubblici nell’UE o svolgono altre attività commerciali nell’UE. A questo fine, la Commissione propone di istituire tre diversi meccanismi: (a) uno strumento generale di indagine ex officio, (b) un sistema di notifica obbligatoria per le concentrazioni e (c) un meccanismo di screening degli appalti pubblici; ciò, al fine di ripristinare un level playing field nel mercato interno tra operatori europei ed extraeuropei. La nozione di “foreign subsidy” – perno dell’applicazione della Proposta di Regolamento – è estremamente ampia e, analogamente al concetto di “aiuto di Stato”, comprensiva di tutti i contributi finanziari diretti e indiretti dei governi e degli enti pubblici di paesi terzi che conferiscono un vantaggio a un’impresa. Una volta accertata l’esistenza di una sovvenzione estera, la Commissione dovrà vagliarne in concreto la portata distorsiva sulla concorrenza, bilanciando eventuali effetti di squilibrio e possibili benefici per l’intero comparto.

Nel corso delle consultazioni, diverse voci hanno evidenziato la natura eccessivamente indeterminata della nozione di “foreign subsidy” e il correlato rischio che tale ampiezza si traduca in una mole di notifiche molto maggiore rispetto alle capacità di analisi della Commissione. È peraltro in direzione opposta che si muove la bozza di Regolamento recentemente approvata dal Committee on International Trade e oggetto di prossimo voto da parte del Parlamento, la quale è ispirata a un marcato ampliamento dell’ambito applicativo della Proposta: infatti (i) la soglia di fatturato della società target europea, la cui acquisizione da parte di una società extraeuropea fa scattare l’obbligo di notifica ai sensi nuova disciplina, viene abbassato da 500 a 400 milioni; (ii) l’elenco di fattispecie che costituiscono “foreign subsidy” diventa ora meramente esemplificativo, e al suo interno vengono aggiunte alcune voci ulteriori come le c.d. “tax exemptions” nonché quelli che vengono genericamente definiti quali gli “inadequately remunerated special or exclusive rights”; (iii) tra i fattori da tenere in considerazione nella valutazione circa la portata distorsiva della sovvenzione estera, viene attribuito ora rilievo alla circostanza che la società interessata operi sia nella sostanza controllata o comunque soggetta a vigilanza o regolazione da parte di altri Stati; infine, (iv) eventuali effetti positivi derivanti dalle sovvenzioni estere possono rilevare in sede di bilanciamento solo nella misura in cui i benefici si producano sul mercato interno europeo.

La conclusione del processo legislativo che porterà all’eventuale adozione della Proposta di Regolamento è attesa non prima del 2023. Al netto delle modifiche (anche radicali) che il testo potrà subire in sede di approvazione, la direzione impressa alla Proposta di Regolamento da parte del Committee on International Trade appare significativa alla luce delle criticità che più parti avevano sollevato nel corso delle consultazioni. Resta da vedere quale sarà la posizione che assumerà il Parlamento nel corso dei prossimi giorni.

Mila Filomena Crispino

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Autorità della concorrenza francese e concentrazioni – L’Autorità antitrust francese autorizza la concentrazione tra Conforama e Mobilux applicando la failing firm defense

Con la decisione dello scorso 28 aprile, l’Autoritè de la concurrence (Autorità) ha autorizzato l’acquisizione di Conforama da parte di Mobilux, due catene concorrenti nella vendita al dettaglio di mobili e arredamento. Benché l’operazione desse luogo, secondo l’Autorità, a plurimi rischi sul piano concorrenziale, la stessa ha comunque ritenuto di autorizzarla senza condizioni in considerazione dello stato di difficoltà finanziaria della target. La decisione costituisce il primo caso di applicazione della failing firm defense da parte dell’Autorità francese.

Sebbene, in virtù dei fatturati delle parti, la Commissione europea detenesse la giurisdizione originaria sull’operazione, la stessa era stata rinviata all’Autorità francese su richiesta delle parti notificanti ex art. 4(4) del Regolamento n. 139/2004. Il closing dell’operazione era stato cautelativamente permesso già nel luglio 2020 in considerazione della difficile situazione economica di Conforama, in deroga all’obbligo di standstill. All’esito della (particolarmente lunga) Fase II, con la decisione in commento, l’Autorità ha definitivamente autorizzato la concentrazione, pur riscontrando l’esistenza di diversi rischi concorrenziali e l’assenza di giustificazioni di efficienza.

Nello specifico, l’Autorità ha ritenuto che dall’operazione derivassero tre ordini di rischi: (i) l’entità risultante dalla concentrazione avrebbe rappresentato quasi il 50% nel mercato della distribuzione di prodotti da letto in Francia, ponendo i produttori che si avvalevano delle reti delle due parti in condizione di dipendenza economica; (ii) nei territori d’oltremare, ove le due società operano mediante franchising, l’operazione avrebbe comportato la scomparsa di un’alternativa per i franchisee, con il rischio concreto di un deterioramento delle loro condizioni contrattuali; e, infine, (iii) in Francia, l’operazione avrebbe dato luogo a un rischio concorrenziale nel mercato per la vendita retail di mobili e arredamento in 56 isocrone.

Ciononostante, l’Autorità ha autorizzato la concentrazione in applicazione della c.d. eccezione della failing firm defense. Nello specifico, l’Autorità ha ritenuto sussistenti tutti e tre i presupposti per l’applicazione di questa eccezione: (i) in primo luogo, in assenza della concentrazione, Conforama – che già nel 2020 aveva annunciato forti tagli nel personale e nel numero di negozi – sarebbe comunque uscita dal mercato; (ii) in secondo luogo, il market test aveva confermato l’assenza di interesse da parte di altri operatori del settore verso l’acquisto di Conforama, e ha quindi escluso la presenza di un acquirente preferibile sul piano concorrenziale (escludendo quindi una ipotesi controfattuale più favorevole); infine, (iii) sul piano del beneficio per i consumatori, l’Autorità ha ritenuto l’eventuale uscita dal mercato di Conforma più nociva dell’acquisizione da parte di Mobilux, poiché quest’ultimo scenario avrebbe garantito il mantenimento di una maggiore diversità dell’offerta.

Come noto, l’ammissibilità teorica della failing firm defense costituisce un principio di diritto consolidato, sancito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea già negli anni ’90 dello scorso secolo con i casi C-68/94 e C-30/95 Kali & Salz. Ratio della dottrina è l’impossibilità di imputare il deterioramento strutturale della concorrenzialità del mercato alla concentrazione stessa, posto che anche in sua assenza gli stessi effetti si presenterebbero nella stessa misura e, in aggiunta, ci sarebbe la dispersione inefficiente di asset produttivi. Se la compatibilità sul piano giuridico della failing firm defence con il regime di controllo delle concentrazioni risulta pacifica, molto meno diffusi sono stati i suoi riflessi sul piano pratico. La rigidità della Commissione nell’applicazione dei criteri ha infatti ampiamente limitato la sua portata applicativa, come dimostra l’ampio lasso di tempo decorso dalla sua ultima applicazione a livello comunitario nel 2013, nel caso M.6796 relativo alla concentrazione tra Aegean Airlines SA e Olympic Air SA, due compagnie aeree greche che invocarono lo stato di crisi a seguito della crisi finanziaria del 2008 e dei riflessi sul debito sovrano della Grecia.

A fronte di tale record nella prassi della Commissione, è degna di nota la decisione assunta da parte dell’Autorità francese di fondare la propria autorizzazione sulla base della condizione di difficoltà economica della target. Stante, da un lato, la crisi economica innescata dalla pandemia e inasprita dal contesto bellico e, dall’altro, la recente apertura del diritto antitrust a considerazioni extra-concorrenziali quali, ad esempio, le possibili ricadute occupazionali connesse a una concentrazione, è plausibile ritenere che la decisione in commento possa costituire il prologo di una più vasta serie di autorizzazioni ispirate alla stessa logica.

Alessandro Canosa

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Diritto della Concorrenza – Italia / Private enforcement e settore delle telecomunicazioni – La Cassazione ha respinto il ricorso di TIM per ottenere la riforma della condanna al risarcimento del danno sofferto da Teleunit in seguito ad un abuso di posizione dominante

Con la sentenza pubblicata lo scorso 26 aprile, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato da Telecom Italia S.p.A. (TIM) per ottenere la riforma della condanna al risarcimento del danno, quantificato in 1,5 milioni di euro, sofferto da Teleunit S.p.A. (Teleunit) in relazione all’abuso di posizione dominante accertato dall’Autorità Garante della Concorrenza del Mercato (AGCM) nel procedimento A-357.

Secondo le risultanze dell’istruttoria dell’AGCM, tale abuso si era sostanziato nell’applicazione da parte di TIM, monopolista nel mercato della terminazione su rete mobile, di una discriminazione tra il prezzo offerto alle proprie divisioni e quello invece sostenuto dai concorrenti per il medesimo servizio di interconnessione nel periodo tra gennaio 2003 e luglio 2007. Teleunit, fornitrice alle imprese di servizi di telefonia vocale su rete fissa, aveva all’epoca acquistato anche un servizio di terminazione su rete mobile che avveniva in parte tramite interconnessione sulla rete di TIM. Pertanto, lamentando una compressione dei ricavi (margin squeeze) a seguito della suddetta discriminazione, aveva agito in giudizio per ottenere il risarcimento del danno corrispondente alla differenza tra i maggiori costi sostenuti per il servizio (overcharge) e quelli inferiori che avrebbe sopportato in assenza dell’abuso escludente.

Il principale motivo di ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello, confermativa della sentenza di primo grado che aveva condannato TIM al risarcimento dei danni, verte sui presupposti del riconoscimento del danno da margin squeeze. Secondo TIM, questo si determinerebbe esclusivamente ove un concorrente nel mercato a valle si veda costretto, per conservare la propria posizione in tale mercato, ad adattarsi alle offerte del soggetto dominante rese più vantaggiose dalla pratica discriminatoria a monte. Pertanto, quantificare il danno sulla base della differenza sopra indicata, a prescindere da tale tipo di reazione della concorrente, finirebbe per valorizzare una circostanza che, non essendo conseguenza dell’abuso, non rientrerebbe nella nozione di perdita o danno emergente.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il motivo di censura. Infatti, la Suprema Corte ha messo in luce che ai fini risarcitori è sufficiente, in linea di principio, che il concorrente vittima dell’abuso escludente veda ridursi, per effetto della condotta illecita, il profitto che altrimenti realizzerebbe, essendo la contrazione idonea ad integrare il lucro cessante. In conformità con le Linee Guida dell’Unione Europea sulla quantificazione del danno antitrust, la Corte di Cassazione evidenzia in seguito che, avendo la concorrente mantenuto la propria offerta nei range compatibili con i costi sostenuti, non vi è ragione per negare che il danno copra anche la perdita che si determina per effetto dell’assorbimento del maggior costo risultante dalla discriminazione. In sede di merito, pertanto, l’overcharge è stato correttamente considerato come presupposto per la contrazione degli utili, e non come voce autonoma di danno, essendo del tutto evidente che la necessità di sostenere maggiori costi si traduca in tale contrazione. Nella sentenza viene inoltre confermata la giurisprudenza del Tribunale di Milano secondo cui overcharge e margin squeeze possono coincidere in caso di mancata traslazione del sovrapprezzo sulla clientela retail (passing on), come nel caso di specie (ed al netto di possibili riduzioni dei prezzi retail o di altri danni legati a perdite di opportunità di business).

Tramite la sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha pertanto reso esplicito il principio per cui, in caso di comportamenti aventi finalità escludente consistenti in discriminazioni di prezzo, il risarcimento del danno dovuto al concorrente vittima dell’abuso è comprensivo della perdita che si determina per effetto dell’assorbimento del maggior costo sostenuto per l’accesso al servizio e, in assenza di altri elementi rappresentativi del danno (quali possibili riduzioni dei prezzi retail cui l’impresa “vittima” sia forzata, o perdite di opportunità di business), può essere liquidato in tale misura.

Niccolò Antoniazzi

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Appalti, concessioni e regolazione / Contratti pubblici e servizi di gestione rifiuti – L’Adunanza Plenaria si pronuncia sull’ambito di operatività dell’istituto della garanzia provvisoria

Lo scorso 26 aprile, con la sentenza n. 7/2022, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (la Plenaria) ha statuito che la garanzia provvisoria, che correda l’offerta dei partecipanti ad una procedura di gara, non può essere escussa nei confronti di una impresa che non sia ancora aggiudicatario definitivo, ma meramente “propost[a] per l’aggiudicazione”.

La pronuncia in commento trae origine da una procedura di gara per l’affidamento del servizio di raccolta, trasporto e spazzamento rifiuti indetta dal Comune di Monza (il Comune). Nell’ambito di tale procedura, l’impresa ricorrente (l’Impresa) è risultata prima in graduatoria ed è stata, pertanto, proposta per l’aggiudicazione definitiva. Nelle more dell’adozione di tale ultimo provvedimento, il Comune ha rilevato che l’Impresa era priva dei requisiti di partecipazione e ne ha pertanto disposto l’esclusione, escutendo la garanzia corredata all’offerta presentata in gara.

Posta la legittimità del provvedimento di esclusione, la questione posta alla Plenaria riguarda unicamente l’ambito di applicazione dell’istituto della garanzia provvisoria: ossia, se “…essa copra soltanto i fatti che si verificano nel periodo compreso tra l’aggiudicazione e il contratto ovvero se si estenda anche a quelli che si verificano nel periodo compreso tra la proposta di aggiudicazione e l’aggiudicazione…”. L’istituto de quo è disciplinato dall’art. 93 del Codice dei contratti pubblici (Codice) e svolge la funzione di garantire la serietà dell’offerta del concorrente che sia stato designato aggiudicatario: se quest’ultimo rifiuta di stipulare il contratto oggetto della procedura di cui è risultato vincitore, la stazione appaltante è autorizzata ad escutere la garanzia per la copertura dei danni subiti in connessione alla mancata stipula del contratto medesimo.

Come anticipato in premessa, la Plenaria ha statuito che la garanzia provvisoria copre solo i fatti occorrenti tra l’aggiudicazione definitiva e la stipula del contratto e non è, pertanto, escutibile nei confronti di un soggetto che, come l’Impresa nel caso di specie, sia stata meramente proposta per l’aggiudicazione e, in seguito, esclusa per carenza dei requisiti generali di partecipazione.

La Plenaria ha scelto la prospettata opzione interpretativa considerandola più aderente: (i) al criterio o di interpretazione letterale delle norme giuridiche, posto che l’art. 93 del Codice circoscrive il proprio ambito di operatività ai fatti che impediscono la stipula del contratto e non anche a quelli successivi alla proposta di aggiudicazione; (ii) ad un’interpretazione in chiave teleologica considerato che, diversamente dal regime previgente fino al 2006, l’attuale Codice non ha riproposto la facoltà per le stazioni appaltanti di escutere la garanzia provvisoria anche nei confronti di soggetti che siano meri partecipanti alla procedura e non ancora aggiudicatari definitivi; (iii) ad un’interpretazione di carattere sistematico vista la distinzione chiara, che emerge dalla lettura del Codice, tra la fase procedimentale in cui si inserisce la proposta di aggiudicazione (a cui la garanzia non si applica) e la fase provvedimentale successiva all’aggiudicazione definitiva (a cui, invece, la garanzia si applica).

La sentenza in commento è interessante non solo nella misura in cui risolve una questione interpretativa controversa, ma anche (e soprattutto) perché, con riguardo ad un tema di chiara importanza pratica e finanziaria per le imprese, pone un chiaro limite alla legittimità di escussioni anticipate delle garanzie presentate in fase di gara da parte delle stazioni appaltanti. Allo stesso tempo, la soluzione adottata dalla Plenaria potrebbe aver assunto un approccio formalistico alla questione e non aver considerato che potrebbe risultare “contraddittorio e diseconomico” (come osservato dalla Sezione remittente) distinguere le posizioni tra soggetto proposto per l’aggiudicazione e aggiudicatario definitivo, finendo per incentivare le amministrazioni aggiudicatrici ad adottare provvedimenti di aggiudicazione definitiva nei confronti di soggetti notoriamente privi di requisiti di partecipazione al solo scopo di escutere in seguito la garanzia provvisoria per impossibilità di stipulare il contratto (o almeno spingendo le stesse amministrazioni a posticipare in momento in cui occuparsi in modo accurato delle verifiche sui detti requisiti).

Alessandro Paccione

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Regolazione e settore dei trasporti – Il Tar Piemonte conferma che i vettori aerei sono ricompresi tra i soggetti obbligati a versare il contributo annuale di funzionamento dell’ART

Il Tar Piemonte (TAR), Sez. I, si è pronunciato con la sentenza n. 378 del 19 aprile scorso sul ricorso proposto da Easyjet Airline Company (Easyjet) avverso la richiesta di pagamento del contributo annuale di funzionamento per l’anno 2020 inviata dall’Autorità di Regolazione dei Trasporti (ART) ai sensi della delibera n. 172/2019.

La sentenza in punto di diritto è di particolare valore in quanto conferma l’adesione da parte del TAR (in senso conforme si veda anche la sentenza n. 219 del 16 marzo scorso relativa al contributo dovuto per l’anno 2021) all’orientamento radicatosi di recente presso il Consiglio di Stato (CdS) secondo cui anche i vettori aerei devono essere inclusi tra gli operatori tenuti al versamento del contributo annuale, dando luogo ad un vero e proprio revirement di una giurisprudenza precedentemente consolidatasi secondo cui i predetti vettori aerei venivano, di contro, considerati semplici ‘beneficiari’ della regolazione e, per l’effetto, esentati da tale obbligo contributivo.

Nella specie, il TAR ha osservato che la normativa in materia di contributo annuale (ossia l’art. 37 co. 6 del D.L. 201/2011) è stata di recente novellata dall’art. 16 del D.L. 109/2018, convertito dalla legge 16 novembre 2018 n. 130, per sostanzialmente positivizzare quanto pronunciato dalla Corte Costituzionale nella propria sent. n. 69 del 7 aprile 2017. Ora, il nuovo comma 6 prevede che all'esercizio delle competenze dell’ART si provvede “…mediante un contributo versato dagli operatori economici operanti nel settore del trasporto e per i quali l'Autorità abbia concretamente avviato, nel mercato in cui essi operano, l'esercizio delle competenze o il compimento delle attività previste dalla legge…”, mentre in precedenza il co. 6 faceva riferimento unicamente “...ai gestori delle infrastrutture e dei servizi regolati…”.

Il TAR, aderendo a quanto statuito di recente dal CdS, ha spiegato come questo intervento normativo abbia dato vita ad un oggettivo ampliamento della platea delle imprese tenute alla contribuzione, giungendo a ritenere che anche gli operatori economici operanti nel settore del trasporto diversi dai gestori delle infrastrutture e dei servizi regolati siano soggetti al contributo dopo la riforma del 2018. Pertanto, il criterio discretivo da adottare per la corretta delimitazione della sfera soggettiva dei contributori consisterebbe adesso nell’individuazione dell’effettivo avvio dell’esercizio delle competenze regolatorie da parte dell’ART senza più alcun rilievo della posizione di soggetti regolati o di beneficiari della regolazione stessa (come avveniva in passato).

Su tali basi, con specifico riferimento ai vettori aerei, il TAR conclude evidenziando che l’attività di trasporto svolta dai vettori aerei sia ricompresa nell’ambito regolatorio attribuito all’ART. A tal fine il giudice di prime cure elenca una serie di basi giuridiche e provvedimenti che proverebbero l’esercizio in concreto di tali poteri, segnatamente: (i) gli artt. 71 e ss. del D.L. 1/2012 che ha conferito all’ART le funzioni di Autorità di vigilanza nel settore aeroportuale in attuazione della direttiva 2009/12/CE ove tale compito consisterebbe nel disciplinare la relazione tra i gestori di aeroporti e gli utenti di questi ultimi per quanto riguarda la fissazione dei diritti aeroportuali; (ii) la delibera n. 64/2014, che ha individuato i modelli di regolazione dei diritti aeroportuali che riguardano gli aeroporti con volumi di traffico superiore ai cinque milioni di passeggeri per anno, quelli con volumi di traffico compresi tra i tre ed i cinque milioni di passeggeri per anno ed infine gli aeroporti con volumi di traffico annuo inferiore ai tre milioni di passeggeri per anno; (iii) la delibera 106/2016 con cui si è dato avvio alla revisione dei Modelli di regolazione dei diritti aeroportuali; e infine (iv) la delibera n. 84/2018 con cui si è dato avvio ad un ulteriore procedimento di revisione dei modelli di regolazione dei diritti aeroportuali vigenti.

Alla luce di ciò per il TAR apparirebbe, dunque, provato come la concreta attività di regolazione sia stata avviata addirittura antecedentemente alla riforma di cui al D.L. 109/2018, concludendo dunque nel senso della inclusione di Easyjet tra le imprese assoggettate all’onere contributivo in parola.

La vicenda in commento conferma il mutamento intervenuto nella giurisprudenza amministrativa in tema di versamento del contributo annuale all’ART nel senso dell’ampliamento significativo della pletora di soggetti tenuti al pagamento di tali oneri, a fronte di un orientamento precedente decisamente più restrittivo. Quest’ultima impostazione, a seguito della proposizione massiva di ricorsi da parte dei vettori aerei interessati, aveva invece escluso gli stessi dall’ambito soggettivo di applicazione dell’art. 37 co. 6, D.L. 201/2011, anche a seguito della disciplina novellistica intervenuta dopo la pronuncia della Corte Costituzionale di cui sopra, in quanto i vettori non erano asseritamente ritenuti destinatari della regolazione dell’ART ma meri ‘beneficiari’ della stessa.

Rimane ora da vedere l’esito di un eventuale appello dinanzi al Consiglio di Stato, benché sia difficile ipotizzare un mutamento radicale di approccio in materia da parte della stessa corte che ha principiato il revirement in parola a cui il TAR si è (con deferenza) adeguato.

Gabriele Maria Polito

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Protezione dei dati personali e piattaforme online – La Corte di Giustizia afferma che un’associazione a tutela dei consumatori ha una legittimazione oggettiva per far valere la violazione del GDPR per il tramite di ulteriori norme di diritto nazionale

Pronunciandosi su una questione pregiudiziale sollevata dalla Corte Federale Tedesca (BGH), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), con sentenza pronunciata nella causa C-319/20 lo scorso 28 aprile, ha affermato che le disposizioni del Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) non impediscono agli Stati Membri di definire ipotesi di legittimazione oggettiva in capo ad associazioni a tutela dei consumatori, quando eventuali lesioni del GDPR integrino al contempo la lesione di altre norme del diritto nazionale, quali quelle a tutela dei consumatori o che vietano le pratiche commerciali sleali.

La vicenda relativa al contenzioso a quo (ossia, da cui è scaturito il rinvio pregiudiziale) ineriva al trattamento dei dati personali degli utenti di Facebook realizzato durante l’utilizzo, da parte di questi ultimi sul social network, di applicazioni sviluppate da terze parti e ivi rese utilizzabili, vedendo opposti, da un lato, Meta, e, dall’altro, l’Unione federale delle centrali e delle associazioni di consumatori (Unione federale).

In particolare, quest’ultima aveva sostenuto vittoriosamente in primo grado e, quindi in appello dinanzi ai giudici tedeschi che alcune indicazioni fornite dai giochi in questione costituissero una pratica commerciale sleale (in quanto non rispettose delle condizioni di legge che si applicano all’ottenimento di un valido consenso dell’utente per il trattamento dei dati personali), e che altre costituissero delle condizioni generali contrattuali affette da nullità in quanto indebitamente penalizzanti per gli utenti.

Diversamente, però, dal Tribunale e dal Tribunale Superiore del Land di Berlino, il BGH – quale giudice di ultimo grado – aveva ritenuto di sollevare una questione pregiudiziale inerente alla legittimazione attiva della parte attrice, l’Unione federale, la quale aveva infatti agito indipendentemente dalla violazione concreta del diritto alla tutela dei dati di determinati interessati e in assenza di un mandato conferito da questi ultimi: ciò, in base dalla c.d. legittimazione oggettiva riconosciutale, in qualità di associazione a tutela dei consumatori, dagli artt. 3 comma 1.3(a) e 8 comma 3.3 della legge tedesca contro la concorrenza sleale.

Tali disposizioni, ad avviso del BGH, potrebbero violare l’art. 80 n. 2 del GDPR, il quale conferirebbe ad un’associazione, quale l’Unione federale, la legittimazione ad agire solo una volta che i diritti di uno specifico interessato siano stati effettivamente violati a causa di uno specifico trattamento di dati. Tuttavia, di diverso parere si è mostrata la CGUE.

In particolare, mediante un’interpretazione sistematica delle disposizioni del GDPR anche alla luce di fonti primarie quali gli articoli 16 e 288 TFUE, la CGUE ha innanzitutto ritenuto che gli Stati Membri godano della possibilità di prevedere disposizioni derogatorie o più rigorose rispetto a quelle contenute nel GDPR tramite le c.d. clausole di apertura tra le quali ha ritenuto di annoverare anche l’art. 80 n. 2 sopra citato.

In secondo luogo, essa ha confermato la legittimazione ad agire per far valere i diritti riconosciuti dal GDPR per associazioni come l’Unione Federale, aventi come finalità la tutela dei consumatori o la lotta contro le pratiche commerciali sleali, in quanto la “…violazione delle norme aventi per scopo la tutela dei consumatori o la lotta contro le pratiche commerciali sleali […] può essere correlata, come nel caso di specie, alla violazione delle norme in materia di protezione dei dati personali di tali consumatori…” – legittimazione, questa, che contribuisce a rafforzare i diritti degli interessati, elevando il livello di protezione assicurato dal GDPR.

Infine, ha ritenuto che tale legittimazione non richieda l’accertamento previo di un danno, né l’identificazione precisa del danneggiato, essendo sufficiente che l’ente “ritenga” che i diritti di un interessato identificato o anche solo identificabile previsti dal GDPR siano stati violati in seguito al trattamento dei suoi dati personali.

Con riguardo alla potenziale rilevanza di questa pronuncia per l’ordinamento italiano, può osservarsi come anche in Italia l’azione di classe di cui all’840-bis c.p.c. e l’azione di inibitoria collettiva di cui all’art. 840-sexiesdecies c.p.c. – entrati in vigore dal 19 maggio 2021 – siano esperibili da associazioni ed organizzazioni a tutela di diritti individuali omogenei lesi, anche in assenza di un mandato conferito dal singolo danneggiato (diversamente da quanto, invece, era previsto nel 140-bis del codice del consumo che regolava la materia prima della riforma del 2019). Resta da vedere se, anche a seguito di questa importante puntualizzazione da parte della CGUE, assisteremo ad una crescita di azioni collettive in Europa e in Italia.

Ignazio Pinzuti Ansolini

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