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Newsletter

Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza – Europa / Intese e settore degli imballaggi – Il Tribunale dell’UE respinge il ricorso del Consorzio Cooperative di Produzione e Lavoro, Coopbox Group S.p.A. e Coopbox Eastern s.r.o.

Con la sentenza del 7 dicembre 2022, emessa nell’ambito della causa T-130/21, il Tribunale dell’Unione Europea (il Tribunale) ha rigettato il ricorso proposto dal Consorzio Cooperative di Produzione e Lavoro (CCPL), Coopbox Group S.p.A. e Coopbox Eastern s.r.o., contro la decisione della Commissione Europea del 17 dicembre 2020 che infliggeva alle ricorrenti una sanzione di circa 9,4 milioni di euro.

La decisione impugnata innanzi al Tribunale aveva confermato la partecipazione delle ricorrenti a tre distinti cartelli nel settore degli imballaggi alimentari, dopo che lo stesso Tribunale (con la sentenza dell’11 luglio 2019) aveva annullato la precedente decisione del 24 giugno 2015 della Commissione che aveva accertato la medesima infrazione e irrogato una sanzione di circa 33,6 milioni di euro. Tale decisione era stata annullata in virtù dell’insufficiente motivazione nella parte relativa alla valutazione della incapacità contributiva delle società interessate. A seguito dell’ordinanza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) di irricevibilità dell’appello proposto contro la sentenza del Tribunale del 2019, in quanto i motivi e argomenti respinti dal Tribunale avrebbero potuto essere invocati nell’ambito di un nuovo eventuale ricorso contro la decisione che sarebbe stata adottata a seguito dell’annullamento della decisione controversa da parte del Tribunale, CCPL, Coopbox Group e Coopbox Eastern proponevano ulteriore ricorso contro la decisione del 2020 per tre ordini di motivi.

In primo luogo, le ricorrenti avevano lamentato l’insufficienza di motivazione circa la responsabilità della società madre del Gruppo CCPL per le pratiche poste in essere dalle controllate indirette Coopbox Group e Coopbox Eastern. Nella sentenza in commento il Tribunale ha ritenuto corrette le determinazioni della Commissione (già peraltro sostanzialmente svolte nella originaria decisione del 2015) secondo cui una partecipazione della società madre dell’oltre 93% al capitale di CCPL S.p.A. bastasse a far operare la presunzione secondo cui una società madre eserciti un’influenza determinante sulla condotta della società controllata, avendo anche riguardo all’esistenza di vincoli economici, organizzativi e giuridici che legano le due entità giuridiche ricondotte ad unità economica. Peraltro, il Tribunale ha ritenuto irrilevante che la Commissione non avesse contestato alcuna infrazione nei confronti della società mediante la quale la capogruppo deteneva il controllo indiretto delle società figlie, così come il fatto che la capogruppo non impartisse istruzioni alle altre società o che non fosse stato dimostrato che era a conoscenza delle intese accertate.

Con il secondo motivo di ricorso le ricorrenti contestavano una violazione dei principi di proporzionalità, equità, individualizzazione e gradazione delle ammende, oltre che dei principi di ragionevolezza e parità di trattamento, nella misura in cui la Commissione ha applicato – per ciascuna infrazione accertata – il limite massimo del 10% del fatturato previsto dall’articolo 23, par. 2 del Regolamento n. 1/2003, così infliggendo alle ricorrenti delle sanzioni ben superiori a quelle inflitte alle altre imprese sanzionate nel settore di riferimento. Il Tribunale ha rigettato in toto queste argomentazioni ritenendo che la Commissione non sia tenuta a garantire che gli importi finali delle sanzioni rendano conto di una differenziazione tra le imprese interessate quanto al loro fatturato totale.

Il terzo motivo di ricorso verteva, in sostanza, sul rigetto da parte della Commissione della domanda di riduzione dell’importo delle sanzioni sulla base della asserita mancanza di capacità contributiva, da valutare sulla base del par. 35 degli Orientamenti del 2006 pubblicati dalla Commissione per il calcolo delle ammende inflitte in casi antitrust. Secondo tali orientamenti, in circostanze eccezionali, la Commissione può tener conto della mancanza di capacità contributiva dell’impresa richiedente, in un contesto sociale ed economico particolare, ove l’imposizione della sanzione pregiudicherebbe irrimediabilmente la sua redditività economica e priverebbe i suoi attivi di qualsiasi valore.

Il Tribunale, richiamando l’orientamento della CGUE in materia, ha affermato che la Commissione non sia tenuta, in sede di determinazione dell’importo della sanzione, a prendere in considerazione la situazione finanziaria di passività di un’impresa in quanto ciò equivarrebbe a procurare un vantaggio concorrenziale ingiustificato alle imprese meno idonee alle condizioni del marcato. Il Tribunale ha anche chiarito che non possa di per sé rilevare che una sanzione possa provocare il fallimento o la liquidazione di un’impresa, quanto invece la perdita di valore degli elementi personali, materiali e immateriali di cui l’impresa è costituita (ossia il suo patrimonio). Altrettanto irrilevante per il Tribunale sarebbe la mera presenza di un livello di passività ampiamente superiore a quello degli attivi ai fini della riduzione della sanzione, così come non avrebbe alcun peso l’intenzione di realizzare investimenti volti a sviluppare le società del Gruppo CCPL. Quanto al contesto economico sociale particolare, il Tribunale ritiene che si debba aver riguardo all’eventuale rischio di un aumento della disoccupazione ovvero del deterioramento dei settori economici interessati dall’attività dell’impresa in questione. Date tali ampie premesse, il Tribunale ha quindi concluso che la Commissione aveva correttamente valutato che le ricorrenti non avessero dimostrato la loro impossibilità ad utilizzare le liquidità del Gruppo CCPL per pagare le sanzioni senza mettere irrimediabilmente in discussione la loro redditività economica.

Nell’attesa di verificare se della vicenda sarà interessata la CGUE, resta la conferma che il Tribunale continua a riconoscere alla Commissione una ampia discrezionalità nel valutare la capacità contributiva delle imprese al fine dell’eventuale riconoscimento della relativa circostanza attenuante.

Francesca Incaprera Huerta

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Intese e settore bancario – La Commissione Europea contesta a Deutsche Bank e Rabobank di aver preso parte ad uno scambio di informazioni e coordinamento di prezzi nel settore del trading che potrebbe rappresentare una infrazione delle regole di concorrenza

Con il comunicato stampa dello scorso 6 dicembre, la Commissione Europea (Commissione) ha reso noto di aver trasmesso a Deutsche Bank e Rabobank (le Parti) una comunicazione delle risultanze istruttorie, ossia il c.d. Statement of Objections (SO) relativamente ad un asserito cartello a due posto in essere dalle parti tra il 2005 e il 2016.

Nello specifico, la Commissione ritiene in via preliminare che, tramite scambi di email e comunicazioni via chatroom tra i trader dei rispettivi gruppi, le Parti si siano scambiate informazioni commercialmente sensibili e abbiano coordinato le proprie strategie di prezzo rispetto alle obbligazioni collocate sul mercato secondario all’interno del SEE. L’asserita condotta concertativa avrebbe riguardato le seguenti tipologie di titoli: (i) sovereign bonds, ossia titoli di Stato emessi da vari Stati Membri nell’ambito dell’Eurozona; (ii) SSA bonds, una categoria onnicomprensiva che include obbligazioni emesse da enti sovranazionali (come la Banca Europea per gli Investimenti), dagli Stati nazionali in una valuta diversa dalla propria nonché da enti o agenzie sub-statali; (iii) covered bonds, emessi da istituti di credito e garantiti da un pool di asset di elevata solidità; e (iv) government guaranteed bonds, ossia obbligazioni il cui soddisfacimento è garantito in subordine da un’autorità governativa nel caso di insolvenza dell’emittente principale.

Il comunicato stampa non offre informazioni in merito all’origine dell’istruttoria della Commissione, e non è dunque possibile ricostruire se il procedimento sia stato avviato su denuncia di un concorrente, ex officio o su domanda di leniency. La Commissione rende tuttavia noto di aver esplorato la possibilità di concludere il procedimento con una decisione di c.d. settlement (ossia, una transazione con cui le parti riconoscono di aver commesso una infrazione a fronte di una riduzione della sanzione) ma, “a causa dell’assenza di progressi” nelle interlocuzioni con le Parti, l’opzione è stata abbandonata a favore della procedura ordinaria di accertamento.

In conclusione, preme segnalare che il procedimento in esame costituisce la terza istruttoria condotta dalla Commissione nell’arco di due anni nel mercato del trading obbligazionario. Si richiamano a questo proposito la sanzione di circa 28 milioni di euro irrogata nell’aprile 2021 a Merrill Lynch, Credit Agricole e Credit Suisse per un’analoga condotta di scambio di informazioni e coordinamento delle strategie di acquisto e vendita degli SSA bonds, nonché l’ulteriore sanzione di circa 371 milioni imposta nel maggio 2021 a BoA, Natixis, Nomura, RBS, UBS, WestLB e Unicredit per il coordinamento delle proprie strategie di bidding nella compravendita di sovereign bonds.

Alessandro Canosa

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Gun jumping e settore farmaceutico – La Commissione ha notificato le misure che intende adottare per dissolvere la concentrazione Illumina/GRAIL

Con il comunicato stampa rilasciato lo scorso 5 dicembre, la Commissione Europea (Commissione) ha reso noto di aver notificato a Illumina Inc. (Illumina) e GRAIL Inc. (GRAIL) la comunicazione delle risultanze istruttorie, ossia il c.d. Statement of Objections (SO) in merito alle misure che intende adottare per porre rimedio al fatto che tali imprese hanno dato attuazione all’operazione di concentrazione tra le stesse, successivamente vietata, in violazione dell’obbligo di standstill previsto dall’articolo 7 par. 1 del Regolamento Europeo sulle Concentrazioni (EUMR).

L’operazione incriminata si sostanziava nell’acquisizione di GRAIL, società attiva nello sviluppo di test oncologici su base ematica che utilizzano il c.d. sequenziamento genomico di nuova generazione (NGS), da parte di Illumina, società attiva nella produzione e commercializzazione di sistemi NGS. L’operazione, tra le varie cose, aveva sollevato tre questioni giuridiche, ad oggi non ancora giunte ad una conclusione: (i) la prima era relativa alla competenza della Commissione ad esaminare operazioni di concentrazione che, pur non soddisfacendo le soglie che fanno scattare una notifica ai sensi dell’EUMR, siano comunque valutate dalla Commissione a seguito di un rinvio presentato da uno Stato Membro senza tuttavia che tali operazioni siano state soggette ad alcun obbligo di notifica nemmeno a livello nazionale (già oggetto di commento in questa Newsletter); (ii) la seconda questione era relativa alla valutazione nel merito degli effetti dell’operazione, la quale aveva portato alla proibizione della stessa (anch’essa già oggetto di commento in Newsletter); e, infine, (iii) la terza questione era rappresentata dall’attuazione anticipata della concentrazione prima di essere stata autorizzata e successivamente dichiarata incompatibile con il mercato interno.

L’odierno commento si concentrerà dunque solo su quest’ultimo aspetto. Già lo scorso 29 ottobre 2021 la Commissione aveva imposto a queste società di mantenere una gestione separata, affidata a manager indipendenti; le aveva vietato di condividere tra loro, salvo eccezioni, informazioni commerciali riservate; aveva imposto ad Illumina di fornire i fondi necessari per garantire la continuità aziendale di GRAIL e per lo sviluppo dei suoi test diagnostici; aveva obbligato le due imprese a improntare le reciproche interazioni commerciali alle condizioni di mercato, ovvero senza favorire indebitamente GRAIL a discapito dei suoi concorrenti; ed infine, le aveva richiesto di prepararsi a un potenziale ordine di dissoluzione della concentrazione.

Con questo SO la Commissione ha ora delineato le misure, sia transitorie, sia di vero e proprio disinvestimento, che intende imporre per dissolvere la concentrazione a norma dell’articolo 8 par. 4 EUMR. Se il comunicato stampa non ne specifica il contenuto in dettaglio, ne elenca comunque i principi ispiratori. Le misure di disinvestimento devono infatti portare GRAIL a riacquisire la propria indipendenza da Illumina e la propria continuità aziendale allo stesso livello pre-operazione, così da assicurare che il gioco concorrenziale tra GRAIL e i suoi concorrenti resti inalterato. Le misure sono state predisposte al fine di eseguire la cessione rapidamente e con un sufficiente grado di certezza. Le misure transitorie sono funzionali ai medesimi obiettivi e sostituiranno quelle provvisorie attualmente in vigore supra illustrate. Le due società hanno ora l’opportunità di contestare tale SO, sia per iscritto, sia in una audizione orale, in attesa della decisione formale (attesa per i primi mesi del 2023) con cui la Commissione potrà rendere i rimedi vincolanti.

Nella vicenda Illumina/GRAIL si aggiunge quindi un ulteriore livello di complessità, non certo esente da critiche esterne sull’operato della Commissione. Infatti, le società coinvolte hanno dichiarato di considerare sproporzionate le misure in questione e sostengono che si debba in ogni caso attendere non solo l’esito del ricorso avverso la sentenza del Tribunale dell’UE sulla competenza della Commissione ma anche quello in relazione all’appello depositato l’ottobre scorso contro il divieto dell’operazione. Resta quindi da vedere quali saranno nello specifico le misure che verranno imposte nonché in che modo, la Commissione terrà conto dei due appelli pendenti in relazione alla medesima operazione.

Niccolò Antoniazzi

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Diritto della concorrenza – Italia / Intese e settore bancario – L’AGCM accerta una violazione dell’articolo 101 TFUE da parte di Bancomat con riguardo al c.d. prelievo in circolarità

Con il provvedimento n. 30381, deliberato lo scorso 30 novembre (la Decisione), l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha accertato la violazione dell’articolo 101 TFUE da parte di Bancomat S.p.A. (Bancomat) con riguardo al progetto di modifica del modello di remunerazione del c.d. “prelievo in circolarità” (il Progetto).

Il prelievo in circolarità consiste nel prelievo di contanti da parte del correntista di uno degli istituti aderenti al circuito Bancomat (l’Issuer) presso un ATM di proprietà di un diverso istituto di credito (l’Acquirer). L’attuale sistema prevede che l’Acquirer svolga una serie di attività prodromiche al prelievo (come la verifica della disponibilità della somma sul conto corrente dell’utente), venendo remunerata dall’Issuer sia per la messa a disposizione dell’infrastruttura, sia per l’espletamento delle operazioni, con una c.d. Multilateral Interchange Fee (la MIF), stabilita dal circuito e di entità fissa. Le singole banche sono poi libere di decidere se, come, ed eventualmente quanto far pagare ai propri correntisti per coprire i costi della MIF.

Il Progetto, secondo Bancomat, risolverebbe alcune criticità dell’attuale modello, consistenti soprattutto in un netto sbilanciamento tra i costi sostenuti dalle banche che svolgono nella maggioranza dei casi il ruolo di Acquirer (segnatamente, le banche di maggiori dimensioni e che presentano una rete più estesa di ATM), significativamente più alti di quelli sostenuti dagli operatori che rivestono tipicamente il ruolo di Issuer. Il cuore del Progetto, infatti, prevedrebbe la sostituzione dell’attuale modello di remunerazione con uno nuovo, incentrato sulla possibilità per le banche Acquirer di applicare direttamente all’utente – al momento del prelievo – una commissione (la c.d. Direct Access Fee, DAF), di entità fissa (i.e., indipendente dall’ammontare del prelievo, e in ogni caso non superiore a 1,5 euro) e uniforme in tutti gli ATM dell’Acquirer.

Secondo l’AGCM, tuttavia, se da un lato è vero che il Progetto lascerebbe gli operatori liberi di fissare la DAF (entro il limite ora menzionato), dall’altro il set di regole comuni potrebbe ingenerare significativi effetti anticompetitivi sia con riguardo agli istituti di credito, sia con riguardo ai consumatori. Ad avviso dell’AGCM, in particolare, a fronte dello scenario attuale che vede l’applicazione di una commissione al prelievo bassa o nulla per buona parte dei prelievi in circolarità, il Progetto condurrebbe, in primo luogo, alla fissazione della DAF verso il valore massimo (nella consapevolezza, da parte dell’Acquirer, che tale importo ricade sul cliente di un altro istituto di credito), con conseguente aumento delle commissioni medie di prelievo a carico dei consumatori nell’ordine del 30-40%, e, in secondo luogo, all’aumento degli incentivi a colludere tra i diversi istituti di credito, dal momento che si andrebbe incontro ad un’eccessiva semplificazione della struttura di pricing del servizio.

Inoltre, l’introduzione della DAF, soprattutto da parte degli istituti di credito di maggiori dimensioni, rappresenterebbe un significativo ostacolo alla concorrenza interbancaria, dal momento che non vi sarebbe più la possibilità da parte di ogni singolo istituto di influire su una fondamentale leva concorrenziale a favore dei propri correntisti (vale a dire la possibilità di modulare la commissione al prelievo, ed eventualmente di non farla pagare). Ciò andrebbe a danno, in particolar modo, delle banche minori e/o con una rete di ATM più ristretta, le quali subirebbero prevedibilmente una perdita di correntisti a favore delle banche con la rete di ATM più estesa (dal momento che il prelievo effettuato dall’utente presso un ATM di proprietà della medesima banca dove questi possiede il proprio conto corrente è gratuito). La Decisione sottolinea come la gravità di tale rischio risieda nel fatto che le banche minori costituiscono un importante vincolo competitivo – specialmente a livello locale – nei confronti degli istituti di credito maggiori, e dunque una significativa perdita di correntisti da parte delle prime potrebbe condurre alla loro graduale sparizione dal mercato, con conseguente aumento del già importante grado di concentrazione del settore bancario italiano.

Infine, la Decisione evidenzia come Bancomat non abbia dimostrato la sussistenza delle condizioni richieste dal terzo comma dell’articolo 101 TFUE al fine di ottenere l’esenzione di un’intesa rientrante nel divieto di cui al primo comma della medesima disposizione, vale a dire (a) la presenza di efficienze connesse alla restrizione, (b) l’indispensabilità di quest’ultima al fine di ottenere tali efficienze, (c) il congruo beneficio per i consumatori, e, infine, (d) l’assenza dell’eliminazione della concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti interessati dall’intesa.

Con riguardo alle (a) efficienze connesse alla restrizione e alla (b) indispensabilità della restrizione al fine del raggiungimento di esse, infatti, gli argomenti addotti da Bancomat – secondo cui, in assenza di un cambio radicale nel sistema di remunerazione del servizio di prelievo in circolarità mediante l’adozione dalla DAF in luogo della MIF, si acuirebbe ulteriormente la già significativa contrazione del numero di ATM presenti in Italia; una conseguenza, questa, non evitabile mediante un semplice aumento della MIF – è stato ritenuto dall’AGCM non persuasivo, dal momento che Bancomat non avrebbe opportunamente dimostrato (i) né che tale contrazione sia esclusivamente – o in misura significativa – dovuta agli alti costi del prelievo in circolarità, e non anche ad altri fattori, quali, ad esempio, riorganizzazioni e ristrutturazioni bancarie, (ii) né la insufficienza di un aumento della MIF al fine di rendere il servizio di prelievo in circolarità meno oneroso.

Con riguardo al (c) congruo beneficio per i consumatori, Bancomat non avrebbe opportunamente dimostrato, da un lato, l’asserita diminuzione media delle commissioni che verrebbero pagate dai consumatori grazie all’introduzione del nuovo sistema di remunerazione, né, dall’altro, eventuali ulteriori benefici sotto forma, ad esempio, di maggiore trasparenza con riguardo ai costi nei quali incorrono gli utenti utilizzando il prelievo in circolarità. Infine, secondo l’AGCM, (d) Bancomat avrebbe omesso di rispondere precisamente ai rilievi mossi in punto di possibili effetti distorsivi delle dinamiche competitive tra gli istituti di credito e derivanti dal nuovo sistema di remunerazione.

Dalla Decisione in commento emergono diversi profili di interesse, quali, in primis, l’esigenza di una puntuale e approfondita dimostrazione, da parte dell’impresa o dell’associazione di imprese, della sussistenza delle condizioni di esenzione di cui al terzo comma dell’articolo 101 TFUE, nonché, in secondo luogo, l’importanza di un atteggiamento proattivo di collaborazione da parte delle imprese nei confronti dell’AGCM: dal momento che il Progetto è stato portato all’attenzione dell’AGCM prima della sua attuazione, infatti, all’accertamento della violazione dell’articolo 101 TFUE non è seguita l’irrogazione di alcuna sanzione nei confronti di Bancomat.

Al riguardo, peraltro, non si può non notare come tale comunicazione preventiva del progetto da parte di Bancomat appaia come una surrettizia notifica volontaria di una intesa, procedura ancora oggi testualmente prevista dagli articoli 4 e 12 della legge n. 287/1990, ma da tempo non più permessa a seguito dall’entrata in vigore del Regolamento UE n. 1/2003 per le intese a cui è applicabile la normativa europea (art. 101 TFEU).

Non resta, ora, che attendere gli eventuali ulteriori sviluppi della vicenda in sede contenziosa.

Ignazio Pinzuti Ansolini

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Appalti, concessioni e regolazione / Procedimenti sanzionatori delle autorità amministrative indipendenti – Il CdS ha stabilito che la l. 689/1981 costituisce lo “statuto unico” di tutte le sanzioni amministrative pecuniarie ivi incluse quelle irrogate dalle autorità amministrative indipendenti

Con la sentenza del 24 novembre 2022 n. 10359, il Consiglio di Stato (CdS) ha ribadito la portata generale della l. n. 689 del 24 novembre 1981 (l. 689/1981), e in particolare del termine decadenziale di 90 giorni per la contestazione delle infrazioni ivi previsto. Ciò anche con riferimento ai procedimenti sanzionatori dell’Autorità di Regolazione dei Traporti (ART).

La vicenda su cui si è espresso il CdS originava dall’adozione di alcuni provvedimenti sanzionatori da parte dell’ART nei confronti di un vettore marittimo per il trasporto passeggeri (l’Operatore) che, secondo diverse segnalazioni, nell’agosto 2018 era stato responsabile di numerose violazioni della normativa europea in materia di diritti dei passeggeri che viaggiano via mare, con riferimento, in particolare, alla mancata informativa sul ritardo, l’omessa assistenza ai passeggeri in attesa e dell’obbligo di rimborsare il biglietto in caso di partenza ritardata.

L’Operatore prima contestava i provvedimenti dell’ART davanti al Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte che respingeva integralmente le censure avanzate. Quindi proponeva appello con i medesimi motivi di impugnazione con riferimento oltre che alla liceità del comportamento tenuto anche, per quanto qui interessa, alla tardiva contestazione dell’illecito accertato dall’ART con superamento del termine di 90 giorni previsto dall’articolo 14 della l. 689/1981.

Il CdS afferma che con la l. 689/1981 il legislatore ha inteso assoggettare ad uno “statuto unico ed esaustivo” tutte le ipotesi di sanzioni amministrative, con la sola eccezione delle violazioni disciplinari e di quelle comportanti sanzioni non pecuniarie, così assicurando il medesimo livello di protezione. In particolare, secondo tale ricostruzione, l’obbligo di immediata contestazione degli illeciti amministrativi previsto dall’articolo 14 della l. 689/1981, oltre ad avere natura perentoria, assolve la funzione di consentire un tempestivo esercizio del diritto di difesa. Ne consegue che, l’applicabilità del termine di 90 giorni ivi previsto può essere esclusa solamente in presenza di una diversa regolamentazione di rango primario (senza che rilevino quindi le fonti regolamentarie secondarie) che espressamente o implicitamente, escluda l’applicazione di tale termine ad uno specifico procedimento sanzionatorio.

Il CdS, in primo luogo, esclude che la normativa primaria vigente in materia di procedimenti dell’ART sia incompatibile con il termine di 90 giorni previsto dalla l. 689/1981, anche alla luce del richiamo allo stesso articolo 14 (invero limitato alle sole “modalità di notificazione”) effettuato dal regolamento dell’ART. In secondo luogo, afferma che l’applicazione del principio di immediata contestazione non può che essere la conseguenza di una interpretazione costituzionalmente orientata, stante la stretta correlazione tra il termine per la contestazione e il diritto di difesa, e la qualificazione del principio di immediata contestazione come corollario del “giusto procedimento sanzionatorio”. Ribadendo la necessaria equivalenza (ma non identità) delle garanzie previste in materia penale con quelle apprestate in materia di sanzioni amministrative afflittive, il CdS ha comunque precisato che il termine di 90 giorni per l’immediata contestazione dell’infrazione, decorre non a partire dalla data di commissione della violazione, bensì dal momento del suo accertamento da parte dell’autorità, con la conseguenza che il termine inizia a decorrere solo dal momento in cui si è compiuta o si sarebbe dovuta ragionevolmente compiere, anche in relazione alla complessità della fattispecie, l’attività amministrativa di verifica della sussistenza di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi dell’infrazione stessa.

Nel concreto, a fronte di una ampia argomentazione di principio, il CdS esclude che l’ART avesse violato il termine dell’articolo 14 della l. 689/1981, stante la posticipazione del termine di decorrenza dei 90 giorni, alla data in cui era stata ricevuta una completa informativa da parte dell’Operatore stesso, in seguito ad una specifica richiesta di informazioni proveniente dall’ART.

In conclusione, la decisione in commento si pone in linea di continuità con altre recenti decisioni del CdS in materia di applicazione delle garanzie previste dalla l. 689/1981 anche ai procedimenti sanzionatori dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Tuttavia, se da un lato, la decisione in oggetto estende tali principi anche all’ART, la motivazione adottata è particolarmente significativa data la sua vocazione generale e di sistema, volta a ribadire la stretta correlazione tra il termine per la contestazione dell’illecito amministrativo e le garanzie costituzionali sul giusto procedimento amministrativo, con conseguente applicazione necessaria nello stesso, nei confronti di tutti i procedimenti sanzionatori delle autorità indipendenti.

Allo stesso tempo, l’indicazione fornita dal CdS del decorso del termine di 90 giorni solo “dal momento in cui è compiuta - o si sarebbe dovuta ragionevolmente compiere, anche in relazione alla complessità della fattispecie - l'attività amministrativa intesa a verificare l'esistenza dell'infrazione, comprensiva delle indagini intese a riscontrare la sussistenza di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi dell'infrazione stessa”, sembra concedere alle autorità sufficiente spazio per adeguare le proprie procedure attivando sin da subito, quantomeno nei casi in cui ci sia un fumus di illecito, la fase pre-istruttoria, ad esempio, attraverso richieste di informazioni e chiarimenti.

Enrico Mantovani

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