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Newsletter

Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione - 26 aprile 2023

Diritto della concorrenza – Europa / Abuso di posizione dominante e e-commerce – La Corte di Giustizia, nell’ambito del caso Amazon Buy Box, ha riconosciuto la legittimità di un provvedimento di avvio del procedimento della Commissione europea che esclude l’Italia dall’ambito territoriale della condotta indagata

La Corte di Giustizia dell’Unione europea (la CGUE) ha rigettato il ricorso di alcune società del gruppo Amazon (Amazon) contro l’ordinanza del Tribunale dell’Unione europea (il Tribunale) che aveva dichiarato l’inammissibilità del ricorso della società contro il provvedimento di avvio del procedimento per possibile violazione dell’art. 102 TFEU da parte della Commissione europea (la Commissione) nell’ambito del caso Buy Box.

La vicenda trae avvio da alcune pratiche commerciali considerate contrarie all’art. 102 TFUE e asseritamente dirette a favorire artificiosamente le proprie offerte di vendita al dettaglio, nonché quelle dei venditori della sua piattaforma di e-commerce che utilizzano i servizi di logistica e di consegna di Amazon.

Rispetto a tale condotta era stato avviato un procedimento da parte dell’AGCM che, al momento del provvedimento controverso della Commissione, si trovava in una fase avanzata dell’istruttoria. Esso era limitato alle sole condotte tenute nel mercato italiano e si sarebbe poi concluso con l’imposizione di una sanzione a Amazon da 1 miliardo e 128 milioni di euro. A questo era seguito l’avvio di un distinto procedimento da parte della Commissione (conclusosi con l’accettazione degli impegni proposti da Amazon), il quale avrebbe riguardato l’intero Spazio Economico Europeo (SEE), ad eccezione dell’Italia. Contro la decisione di avvio del procedimento della Commissione Amazon aveva proposto ricorso richiedendone l’annullamento parziale nella parte in cui escludeva l’Italia dall’ambito territoriale delle condotte esaminate.

Con detto ricorso, Amazon lamentava l’illegittimità della decisione controversa nella parte in cui, escludendo le condotte nel mercato italiano dall’ambito del procedimento, la privava della tutela contro i procedimenti paralleli da parte delle autorità garanti della concorrenza degli Stati membri e della Commissione sancita all’art. 11 del Regolamento 2003/1/CE.

La CGUE, confermando la decisione del Tribunale, ha rigettato il ricorso di Amazon sostenendo che la tutela in parola si applica solo nell’ipotesi di procedimenti paralleli da parte delle autorità nazionali e della Commissione riguardanti le stesse imprese per le medesime condotte asseritamente anticoncorrenziali, intervenute sullo stesso o sugli stessi mercati di prodotto e geografici nel corso degli stessi periodi e che questa dipenda dall’ambito di applicazione della decisione di avvio del procedimento.

Non sussisterebbe, invece, alcun diritto delle imprese oggetto di indagine a che il caso sia integralmente trattato dalla Commissione. Sostenere, infatti, che una decisione di avvio del procedimento debba necessariamente riguardare l’intero SEE, equivarrebbe a privare la Commissione dell’ampio potere discrezionale di cui essa dispone.

Con la decisione in commento, la CGUE fissa quindi chiaramente il principio della libertà della Commissione nella definizione dell’ambito territoriale dell’istruttoria. Questa è così indirettamente ammessa a tenere in conto anche dello stato di avanzamento delle istruttorie eventualmente avviate dalle autorità nazionali in un’ottica di economicità e di non duplicazione dei procedimenti amministrativi.

Alberto Galasso

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Private enforcement e valore delle decisioni delle autorità nazionali – La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha stabilito che la violazione del diritto della concorrenza stabilita in una decisione di un’autorità nazionale deve essere considerata come accertata nell’ambito del private enforcement fino a prova contraria

Il 20 aprile 2023 si è pronunciata la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (la CGUE) a seguito di un rinvio pregiudiziale operato dal Tribunale di Commercio n. 2 di Madrid (lo Juzgado de lo Mercantil n. 2 de Madrid) che specifica le condizioni da soddisfare affinché possa ritenersi soddisfatto dal ricorrente l’onere della prova della violazione del diritto della concorrenza quando la violazione è stata accertata da una precedente decisione di un’autorità nazionale competente.

La controversia da cui il rinvio prende le mosse vedeva come parti gli eredi di NK (eredi di NK), proprietari di una stazione di servizio, e Repsol Comercial de Productos Petrolíferos SA (Repsol), società spagnola che opera nei settori del petrolio e del gas naturale.

In questo giudizio gli eredi di NK presentavano due azioni, una di nullità dei contratti di rivendita (che contenevano un obbligo di approvvigionamento esclusivo) con Repsol, e una diversa azione di risarcimento dei danni che la parte attrice avrebbe subito di conseguenza alla fissazione da parte della società, all’interno dei contratti, del prezzo di vendita al pubblico dei combustibili.

Per dimostrare l’esistenza della violazione gli eredi di NK si erano basati, nell’ambito di tali azioni, su due decisioni precedenti Repsol, una del 2001 ed un’altra del 2009.

L’11 luglio 2001 il Tribunale per la tutela della concorrenza spagnolo aveva condannato la Repsol per aver fissato, nell’ambito dei suoi rapporti contrattuali con alcune stazioni di servizio, i prezzi di rivendita al pubblico dei carburanti. La Repsol aveva contestato la validità della decisione che però è stata confermata dalla Corte centrale. Quest’ultima sentenza era stata quindi stata appellata dinanzi alla Corte suprema spagnola che tuttavia aveva respinto l’impugnazione. Di conseguenza la decisione del 2001 è divenuta definitiva.

Il 30 luglio 2009 la Commissione nazionale per la concorrenza, a seguito di un’indagine, aveva adottato una decisione in cui, nuovamente, Repsol, insieme ad altre società di raffinazione, veniva sanzionata per aver fissato indirettamente il prezzo di vendita al pubblico dei carburanti praticato nelle stazioni di servizio. Anche questa decisione a seguito di un ricorso di annullamento veniva confermata dalle Corte suprema spagnola.

Sono due le questioni pregiudiziali che il Tribunale di commercio n. 2 di Madrid, sospendendo il procedimento, ha sottoposto alla CGUE:

  • con la prima, è stato richiesto se fossero applicabili le decisioni del 2001 e del 2009, e se quindi fosse soddisfatto l’onere della prova dell’infrazione ex art. 2 del Regolamento (CE) n.1/2003, laddove la parte dimostra che il suo rapporto contrattuale con Repsol rientra nell’ambito territoriale e temporale oggetto della violazione accertata da parte dell’autorità nazionale della concorrenza;
  • con la seconda domanda, nel caso di risposta affermativa alla questione n.1, è stato domandato se la conseguenza necessaria dell’applicabilità delle decisioni del 2001 e del 2009 fosse la dichiarazione di nullità dell’accordo ex art.101 par. 2 TFUE.

La CGUE ha ritenuto, in relazione alla prima domanda pregiudiziale, che la violazione del diritto della concorrenza constatata in una decisione di un’autorità nazionale garante della concorrenza, che è stata oggetto di un ricorso di annullamento dinanzi ai giudici nazionali competenti ma che è divenuta definitiva dopo essere stata confermata da tali giudici, deve ritenersi dimostrata dal ricorrente fino a prova contraria, a condizione che “…la natura dell’asserita violazione oggetto delle azioni [di annullamento e di risarcimento del danno] e la sua portata materiale, personale, temporale e territoriale coincidano con quelle della violazione constatata in detta decisione”.

Con riferimento alla seconda questione pregiudiziale, invece, la CGUE afferma che nel caso in cui il ricorrente riesca a dimostrare l’esistenza di una violazione dell’art. 101, il giudice nazionale deve dichiarare nulle le clausole contrattuali incompatibili con l’art. 101, par. 1, TFUE, mentre l’intero accordo in questione sarà nullo solo se tali elementi non appaiono scindibili dall’accordo stesso.

La decisione in commento è coerente con quanto definito nella Direttiva 2014/104/UE che fissa il principio per cui le decisioni delle autorità nazionali non costituiscono solo prova privilegiata (fino a prova contraria) ma sono vincolanti per i giudici nazionali, rendendo così meno gravoso l’onere della prova per il ricorrente che debba dimostrare l’esistenza di una violazione dell’art. 101 TFUE per ottenere l’annullamento di un contratto.

Irene Ammendola

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Diritto della concorrenza – Italia / Intese e settore delle telecomunicazioni – Il TAR ha rigettato il ricorso di Open Fiber per l’annullamento degli Accordi FiberCop

Con la sentenza pubblicata lo scorso 14 aprile, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (il TAR) ha respinto il ricorso presentato da Open Fiber S.p.A. (Open Fiber) per ottenere l’annullamento del provvedimento con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha chiuso con impegni il procedimento I850 – Accordi FiberCop.

Tale procedimento traeva origine dalla costituzione nell’agosto 2020 di FiberCop S.p.A. (FiberCop), una joint venture tra Telecom Italia S.p.A. (TIM), Fastweb S.p.A. (Fastweb) e il fondo private equity KKR & Co. Inc (tramite la sua controllata Teemo Bidco S.à r.l.) (KKR), finalizzata a sviluppare in Italia una rete secondaria a banda ultra-larga in fibra ottica, ovvero l’infrastruttura che permette la connessione tra i c.d. armadi stradali e la sede dell’utente finale. Ai sensi dell’art. 76 della Direttiva 2018/1972 (il Codice europeo delle comunicazioni elettroniche), nel gennaio 2021 TIM aveva reso pubblica un’offerta di coinvestimento al fine di aprire a tutti gli operatori del mercato la possibilità di finanziare il progetto infrastrutturale di FiberCop. Secondo tale offerta, tali soggetti potevano partecipare (i) assumendo un vincolo decennale all’acquisto di un minimo garantito pay per use di accessi individuato per ciascun comune in un minimo di linee pari al 10% delle unità immobiliari, oppure tramite (ii) l’acquisto immediato di infrastrutture dedicate a fronte dell’accesso ai servizi di utilizzo della rete a prezzi agevolati per i successivi vent’anni.

L’AGCM aveva contestato che le condizioni appena descritte avrebbero ridotto la concorrenza nei mercati all’ingrosso delle telecomunicazioni senza determinare una reale infrastrutturazione degli operatori alternativi. In risposta a tali preoccupazioni, le parti avevano presentato un articolato set di impegni, tra cui: (i) l’obbligo per FiberCop di procedere a una celere infrastrutturazione nelle aree indicate; (ii) la riduzione del citato vincolo minimo di acquisto dal 10% all’8%; e (iii) la riduzione della scala geografica di adesione al progetto. Avverso il provvedimento con cui tali impegni venivano resi obbligatori ha presentato ricorso Open Fiber, principale concorrente attivo nel già citato mercato all’ingrosso.

Sul punto, il TAR esordisce premettendo la propria impossibilità ad operare un sindacato “forte” sul provvedimento amministrativo gravato stante la sua differente natura rispetto agli atti “ordinari” con cui l’AGCM accerta l’anticoncorrenzialità di un illecito ed irroga sanzioni; il TAR osserva infatti che il provvedimento definisce il procedimento istruttorio in “maniera peculiare” rendendo obbligatori gli impegni spontaneamente presentati dalle parti poiché ritenuti sufficienti per mantenere il mercato in una situazione di concorrenza. Trattandosi provvedimento ordinato in chiave prospettica, vi sarebbe un maggior margine di “discrezionalità” nelle valutazioni dell’AGCM.

Con riferimento ai motivi di censura presentati da Open Fiber, il TAR ha innanzitutto precisato che il termine di tre mesi dall’avvio del procedimento per la presentazione di impegni non ha natura perentoria, ben potendo infatti – come nel caso di specie – essere oggetto di una proroga concessa dall’AGCM. Il TAR ha anche precisato che la non-definitività del progetto di co-investimento – in quanto ancora oggetto di scrutinio dinanzi all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCom) – non è un elemento di per sé sufficiente a determinare una carenza di attualità degli impegni, essendo la valutazione dell’AGCM non solo di natura diversa da quella dell’AGCom poiché adottata in chiave prospettica, ma anche ben più ampia poiché tiene in considerazione altresì la concorrenza già esistente sulla rete.

Quanto alle ulteriori censure, il TAR ha confermato la valutazione dell’AGCM circa l’adeguatezza degli impegni a mitigare i potenziali effetti restrittivi per la concorrenza. In particolare, ha rilevato, inter alia, che la riduzione dal 10% all’8% dei minimi garantiti si è unita ad una significativa limitazione geografica con la conseguenza che, proiettando il vincolo sull’intero mercato rilevante, gli obblighi di acquisto risultano in realtà ben inferiori all’8%. Infine, il TAR non ha ravvisato alcuna contraddittorietà tra gli impegni accettati nel provvedimento gravato e quelli resi obbligatori ad esito del procedimento I799 relativo alla joint venture Flash Fiber, partecipata da TIM e Fastweb, e da queste conferita in FiberCop. Il TAR ha infatti ritenuto che un simile conferimento abbia sostanzialmente soddisfatto lo scopo dell’impegno assunto a liquidare Flash Fiber entro il 2035, ovvero quello di determinare la cessazione della sua operatività.

Pertanto, con la sentenza in commento, il TAR ha da un lato precisato i limiti del proprio sindacato su un provvedimento di accettazione di impegni presentati dalle parti, confermando la sua tendenza ad un sindacato meno “forte” in simili casi, e dall’altro ha confermato in toto la legittimità del provvedimento reso dall’AGCM in merito a questo progetto infrastrutturale ritenuto particolarmente strategico in un’ottica di politica industriale.

Niccolò Antoniazzi

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Abuso di posizione dominante e settore delle telecomunicazioni – Il Consiglio di Stato conferma il provvedimento con cui l’AGCM aveva sanzionato Vodafone per margin squeeze

Con la sentenza pubblicata lo scorso 14 marzo, il Consiglio di Stato (il CdS) ha accolto l’appello proposto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) e confermato la legittimità del provvedimento sanzionatorio irrogato nei confronti di Vodafone Italia S.p.A. (Vodafone) a conclusione del procedimento A500B, annullando l’impugnata sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (il TAR) che aveva accolto in primo grado le censure della società sanzionata.

La vicenda contenziosa trae origine dal citato provvedimento sanzionatorio (per una cui analisi più approfondita si rimanda alla nostra Newsletter dell’8 gennaio 2018), con cui l’AGCM aveva accertato che Vodafone, operatore di comunicazioni telefoniche che dispone di reti proprie e delle terminazioni necessarie per il recapito degli SMS, ed altresì attiva sia sul (i) mercato wholesale della vendita di tali terminazioni a società che le utilizzano per vendere SMS bulk, sia sul (ii) mercato retail a valle della vendita di SMS bulk alle imprese, avesse richiesto agli operatori che acquistano il diritto di terminazione sulla rete Vodafone (Operatori D43) un prezzo più elevato rispetto a quello sostenuto dalle proprie divisioni interne incaricate della vendita al dettaglio di SMS bulk, riducendo in tal modo il margine di utile di tali operatori (c.d. margin squeeze), con la finalità di estrometterli dal mercato.

Vodafone aveva contestato le conclusioni dell’AGCM, sollevando inter alia le seguenti censure: (i) l’erronea modalità con cui l’AGCM aveva ricostruito il “prezzo soglia” al fine di dimostrare la compressione dei margini a danno dei concorrenti di Vodafone nel mercato a valle della vendita dei servizi di trasmissione degli SMS bulk, escludendo indebitamente una particolare categoria di operatori (c.d. aggregatori) dal perimetro degli acquirenti a livello wholesale rispetto a cui calcolare il prezzo soglia, e limitandosi a considerare i soli operatori D43; nonché (ii) l’erronea qualificazione dei servizi di terminazione su rete Vodafone come input indispensabile per garantire la concorrenza nel mercato a valle. In accoglimento delle censure sollevate da Vodafone, il TAR aveva annullato il provvedimento impugnato.

Per quanto concerne la prima censura, il CdS avalla l’impostazione originaria dell’AGCM. Sul punto, è necessario premettere che tra aggregatori e MNO/Operatori D43 esiste una significativa differenza in termini di business model. I primi, infatti, si atteggiano a meri intermediari nel mercato retail degli SMS bulk, non acquistando a monte un “input” intermedio (al quale assemblano le ulteriori componenti del prodotto finale) ma limitandosi a rivendere quanto acquistato dagli MNO o dagli Operatori D43; questi ultimi, invece, mediante i propri accordi di interconnessione, acquistano il diritto di terminare ciascun SMS ad un prezzo e secondo una determinata qualità, senza predefinire un numero massimo di messaggi inviabili. Sulla base di quanto esposto, merita condivisione l’opzione dell’AGCM di assimilare – ai fini del calcolo del prezzo soglia – gli aggregatori ai clienti “retail”, risultando in linea con le differenze tra tali soggetti e gli Operatori D43 che si ripercuotono sulle dinamiche concorrenziali dei mercati di riferimento. L’elemento della sola rivendita degli SMS ai servizi finali è un aspetto che non può essere isolatamente considerato, e l’AGCM ha correttamente rilevato come l’effettiva e reale concorrenza a Vodafone provenisse esclusivamente dagli operatori D43 alla luce della differenza nel prodotto acquistato (pacchetto completo, nel caso degli aggregatori, e, diritto di terminazione, nel caso degli operatori D43).

Per quanto concerne invece la natura indispensabile del servizio fornito da Vodafone, sosteneva il TAR nella sentenza impugnata che, “…considerato che sul mercato esistono attualmente tre operatori di rete mobile (Vodafone, Tim e Wind), si può presumere che ogni SMS bulk, salvo prova contraria, sia verosimilmente costituito di SMS destinati a terminare sulle reti Vodafone solo per circa un terzo…”. Ne deriva che il diritto di terminazione sulla rete Vodafone non costituisce l’unico input rilevante per confezionare il prodotto finale, concorrendo solo per circa un terzo alla fornitura del servizio retail. Sul punto, premesso un rinvio alla giurisprudenza comunitaria circa la rilevanza del test di indispensabilità nelle ipotesi di margin squeeze, il CdS smentisce le conclusioni del giudice di primo grado, constatando come il servizio di SMS bulk sia commercialmente appetibile solo nella misura in cui assicuri che gli SMS inviati dai clienti “retail” siano effettivamente ricevuti/ricevibili dai loro destinatari a prescindere dal gestore telefonico utilizzato da questi ultimi. Poiché per ragioni tecniche e infrastrutturali non esiste un prodotto sostituto ai servizi di terminazione erogati da Vodafone sulle proprie utenze, ne deriva che il servizio di Vodafone si atteggia a input indispensabile nel mercato a valle degli SMS bulk.

Alessandro Canosa

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Appalti, concessioni e regolazione / Concessioni e proroghe automatiche – La Corte di giustizia dell’Unione europea conferma l’incompatibilità con il diritto dell’UE dei provvedimenti di proroga automatica delle concessioni sul demanio marittimo

La Corte di giustizia dell’Unione europea (la CGUE) ha pubblicato in data 20 aprile una sentenza resa nella causa C-348/22 emessa a seguito di rinvio pregiudiziale operato dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia (il TAR Puglia) nel contesto di un giudizio avente ad oggetto l’impugnazione di una delibera comunale di proroga delle concessioni balneari.

Più nello specifico, il Comune di Ginosa, con delibera del 24 dicembre 2020 (la delibera), aveva prorogato fino al 2033 le vigenti concessioni di occupazione del demanio marittimo (conformemente all’art. 1, co. 682 e 683, della L. 145/2018 e dell’art. 182 del D.L. 34/2020 convertito, con modificazioni, dalla L. 77/2020). Sul punto interveniva l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) la quale, ai sensi dell’art. 21-bis della L. 287/1990, notificava a detto Comune un parere motivato in cui sosteneva come la delibera in parola fosse incompatibile con l’art. 12 parr. 1 e 2 della direttiva (CE) 2006/123 (la Direttiva) nonché con le libertà fondamentali di cui agli artt. 49 e 56 del TFUE.

Poiché il Comune di Ginosa rifiutava di adeguarsi a tale parere, l’AGCM proponeva ricorso presso il TAR Puglia diretto all’annullamento della delibera e dei provvedimenti di proroga rilasciati successivamente. Su tali basi, il giudice a quo ha sollevato il rinvio pregiudiziale proponendo ben nove quesiti, i quali nondimeno possono essere sostanzialmente riassunti in tre punti rilevanti: (i) il giudice del rinvio ha in primo luogo richiesto di valutare se la base giuridica della Direttiva fosse appropriata, posto che quest’ultima sarebbe di armonizzazione e non di liberalizzazione e quindi la stessa avrebbe dovuto essere adottata all’unanimità e non a maggioranza qualificata dei voti del Consiglio; (ii) il giudice del rinvio ha quindi chiesto alla CGUE di chiarire se la Direttiva sia qualificabile come self-executing, in quanto riterrebbe che l’art. 12 della stessa non potrebbe produrre un effetto di esclusione delle norme nazionali difformi atteso che il par. 3 della norma in parola demanderebbe espressamente gli Stati membri il compito di stabilire le regole della procedura di selezione; e (iii) infine, il giudice a quo ha altresì richiesto di chiarire quale criterio debba essere seguito per valutare il requisito della limitatezza delle risorse e se esso debba fare riferimento all’intero territorio nazionale ovvero se, viceversa, tale valutazione non debba intendersi riferita al territorio costiero di ciascun comune.

Quanto al quesito sub (i) posto in ordine alla validità della Direttiva, la CGUE ricorda in via preliminare la propria giurisprudenza consolidata secondo cui la scelta del fondamento giuridico di un atto deve basarsi su elementi oggettivi quali lo scopo e il contenuto dell’atto. Se l’esame di un atto dell’UE dimostra che esso persegue una duplice finalità e se una di queste è identificabile come principale, mentre l’altra è solo accessoria, l’atto deve fondarsi su una sola base giuridica afferente alla finalità principale. In via eccezionale, ove sia provato che l’atto persegue più obiettivi tra loro inscindibili, tale atto dovrà fondarsi sulle diverse basi giuridiche corrispondenti. Il cumulo di due basi giuridiche è però escluso quando le procedure previste dall’una e dall’altra base giuridica sono incompatibili.

Nel caso di specie, la CGUE dapprima osserva che, poiché l’art. 94 CE prevede un voto all’unanimità del Consiglio, mentre l’art. 47 par. 2 (che costituisce la base giuridica della Direttiva) impone un voto a maggioranza qualificata, il cumulo di tali basi giuridiche risultava impossibile. Ciò detto, la CGUE osserva che l’art. 1, par. 1 della Direttiva ha chiarito come la stessa intendeva “…stabili[re] le disposizioni generali che permettono di agevolare l’esercizio della libertà di stabilimento dei prestatori nonché la libera circolazione dei servizi…”. Tale obiettivo è stato poi ripetutamente confermato dal preambolo della Direttiva, in particolare ai considerando 1, 5, 12, 64 o 116. Su tali basi la CGUE ha concluso che non si tratti di una direttiva di armonizzazione e che, dunque, il Consiglio ha correttamente deliberato a maggioranza qualificata in quanto la Direttiva, per come congegnata, ha perseguito effettivamente gli scopi di liberalizzazione previsti all’art. 47 CE, che mira al coordinamento delle disposizioni degli Stati membri relative all’accesso e all’esercizio delle attività autonome e alla libera prestazione dei servizi.

Quanto invece al quesito sub (ii) relativo al carattere self-executing della Direttiva, la CGUE conclude concisamente riconoscendo che il tenore letterale dei parr. 1 e 2 dell’art. 12 della Direttiva sia sufficientemente preciso e incondizionato, in quanto impone il lancio di una selezione imparziale e trasparente, senza che sia lasciata sul punto alcuna discrezionalità allo Stato membro, sancendo in tal modo un contenuto di tutela minima a favore dei candidati potenziali.

Venendo, infine, all’ultima questione sub (iii) afferente al concetto di scarsità della risorsa, la CGUE afferma come, alla luce del suo tenore letterale, l’art. 12 della Direttiva conferisce agli Stati membri un certo margine di discrezionalità nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali. Tale margine di discrezionalità può condurli a preferire una valutazione generale e astratta, valida per tutto il territorio nazionale, ma anche, al contrario, a privilegiare un approccio che ponga l’accento sulla situazione esistente nel territorio costiero di un comune o addirittura a combinare tali due approcci. In ogni caso, è necessario che i criteri adottati da uno Stato membro si basino su criteri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati.

Va osservato come questa pronuncia sembrerebbe in apparenza porre fine alla saga delle concessioni balneari in Italia. Nel merito, sorprende tuttavia il rinvio del giudice nazionale in merito alla presunta natura non self-executing della Direttiva posto che, per un verso, la CGUE così come il Consiglio di Stato (in precedenti pronunce già commentate nella nostra Newsletter) si erano già chiaramente pronunciate in tal senso e, per l’altro verso, una volta riconosciuta nella stessa ordinanza di rinvio l’incompatibilità della delibera comunale anche con gli artt. 49 e 56 TFUE, sarebbe stato naturale giungere alla sua disapplicazione posto che è indiscutibile l’applicabilità diretta dei Trattati. Da ultimo, la risposta fornita sul quesito relativo al criterio da applicare per determinare la scarsità della risorsa sembrerebbe comunque lasciare una certa discrezionalità ai Comuni per valutare se effettivamente la porzione di territorio di loro competenza possa considerarsi ‘scarsa’ e giungere alla conclusione che non sarebbe necessario lanciare una nuova gara in quanto ulteriori aree sarebbero disponibili oltre a quelle già affidate. Vero è che il Consiglio di Stato nelle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 avrebbe già chiarito che la porzione di demanio marittimo concessa ad un privato è per definizione ‘scarsa’, posto che in vigenza della concessione tale asset non sarebbe accessibile dai terzi; nondimeno, visto che lo stesso TAR Puglia nel caso di specie ha disatteso espressamente tali pronunce rinviando il caso alla CGUE, non può escludersi che potremmo assistere a nuovi contenziosi derivanti da delibere comunali di proroga che si fondino sull’assenza del requisito della scarsità della risorsa naturale.

Gabriele Maria Polito

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